IUFitalia2015/contenuti/#0203 conoscenza

IUFitalia2015 | contenuti | #0203 conoscenza libera

Keyword: libero accesso alla conoscenza, contenuti, copyright, proprietà intellettuale, brevetti

Internet è oggi il più grande produttore e contenitore di conoscenza. Cosa ostacola il libero accesso ed il riuso gratuito dei contenuti digitali prodotti e distribuiti su internet? Come è possibile reagire a norme e regolamenti (ad esempio il regolamento Agcom) sempre più restrittivi?

Riprendo un paio di argomenti di cui avevo scritto in passato, in altri topic.

LICENZE LIBERE OBBLIGATORIE PER LE PUBBLICAZIONI UNIVERSITARIE Attualmente al momento della consegna della tesi di laurea al dottorando viene sottoposto un documento in cui gli/le si chiede di decidere se rendere consultabile o meno il proprio lavoro. E purtroppo molti decidono di non renderlo consultabile. Personalmente sarei per abolire questo falso diritto e affermare il principio che ciò che viene elaboarto in una Università pubblica debba essere di pubblico dominio, meglio se in formato pdf sul sito dell’Ateneo; lo studente si è formato in un’Istituzione finanziata in gran parte (almeno all’80%, secondo la legge) coi soldi pubblici, ergo dev’essere la collettività a poter beneficiare della conoscenza in essa generata. Supponiamo -ad esempio- che un laureando scopra un metodo nuovo e rivoluzionario per produrre protesi a basso costo. Attualmente blinderà la propria tesi, e una vuolta fuori dall’Ateneo verrà assunto da un’azienda -o ne fonderà una lui stesso- che brevetterà la scoperta e deterrà un monopolio. Se invece la tesi fosse di pubblico dominio tutte le aziende che producono protesi potrebbero migliorare il proprio prodotto, che diverrebbe quindi anche più accessibile alle tasche dei più (per via della concorrenza). E il laureando troverebbe verosimilmente comunque lavoro, essendo di fatto l’auore dell’intuizione. (quest’esempio è solo in parte teorico; è più o meno la storia dell’Open Biomedical Initiative [http://www.openbiomedical.org/], che utilizza la stampa 3D per produrre protesi e altri dispositivi medici low-cost e open source nei paesi che più poveri). Di tutto ciò si parlò tempo fa in una chat su Mumble io, @Ronin e Kikinki. Una delle principali obiezioni emerse era che i ricercatori e i docenti potrebbero essere i primi ad opporsi a questa legge. Il criterio fondamentale con cui si valuta la carriera universitaria è il numero di pubblicazioni su riviste scientifiche, e ovviamente il prestigio di esse; mettere tutto online può far sì che un collega “arrivi prima di te” (per dirla in termini brutali), sviluppando la tua tesi. Inoltre c’è sempre il pregiudizio di fondo che pubblicare liberamente online un lavoro ne sminuisca automaticamente il prestigio. Questo però, IMHO, è il riflesso del modo tradizionale di concepire la ricerca (universitaria e non), cioé come una sorta di gara a chi arriva primo nella corsa al prestigio personale. Idealmente i ricercatori delle Università pubbliche dovrebbero sentirsi parte di un’unica grande squadra, cioé appunto lo Stato (o la collettività, se il concetto di Stato non è gradito); so bene che così non è, ma proprio perciò occorrerebbe far passare questo nuovo concetto. Ormai esistono decine e decine di esempi che dimostrano che la filosofia dell’Open Source (nel software come nell’hardware come in altri ambiti ancora) permetta un progresso più rapido per la collettività. Peraltro c’è anche da dire che quest’eventuale obbligo di pubblicazione online con licenze libere gioverebbe anche sul piano della trasparenza; sarebbe più difficile assumere sulla base di raccomandazioni e corruttele varie, se il principale criterio di giudizio (tesi e altre pubblicazioni) fossero accessibili e valutabili da chiunque.

INCENTIVI AI MODELLI D’IMPRESA OPEN, ANZICHÉ AI BREVETTI

Copio-incollo quello che ho scritto tempo fa a proposito del PatentBox.

Negli ultimi anni si stanno moltiplicando i casi di “Open source businness model” (qui e qui un po’ di materiale informativo), ossia imprese (per ora pricipalmente nel settore hardware e software) che rinunciano al brevetto e rilasciano online codici, schemi e insomma tutte le info necessare a far sì che l’utente possa ricreare autonomamente quel prodotto. Il caso più noto è quello di Arduino, ma la tendenza è in crescita.

Il punto è che secondo me lo Stato dovrebbe incentivare questo modo di fare impresa, anziché quello tradizionale basato appunto su brevetti etc. Potrebbe quindi creare una sorta di “Open Box”, anziché il Patent Box. Chi rilascia pubblicamente i codici e gli schemi in pratica crea la propria stessa concorrenza, perché dà ad altri la possibilità di mettersi a creare e commercializzare lo stesso prodotto (o almeno, questa è la teoria. In pratica ciò che stiamo vedendo -rimandendo nell’esempio di Arduino- è che nascono molti fork, più che “cloni”). Non che questo modello costituisca solo un sacrificio per l’impresa. Rick Falkvinge qualche anno fa, d’innanzi ad un’assemblea d’imprenditori disse “Il vostro patrimonio più importante non sono i vostri dipendenti (…), ma le migliaia di persone che vogliono lavorare gratis per voi, senza che voi glielo permettiate”. Rilasciare un prodotto con licenza libera significa in effetti sottoporlo agli occhi vigili e attenti di un numero di debugger assai più ampio di quello che un’impresa (specie se piccola o media) potrebbe permettersi se li dovesse assumere. Come recita quella che Eric Raymond chiamava la Legge di Linus: “dato un numero sufficiente di occhi, tutti i bug vengono a galla”. Ad ogni modo, visto che concetti come questi, SE mai arriveranno, arriveranno da noi coi consueti decenni di ritardo rispetto al mondo evoluto, il sostegno dello Stato si configurerebbe come una specie di “indennizzo”, o almeno come riconoscimento del valore aggiunto che il modello libero genera. Si obietterà che anche i brevetti e il copyright possono creare posti di lavoro, perché permettono ad un’azienda di prosperare e -di conseguenza- assumere più gente. Ora, al di là del fatto che per come funziona oggi l’economia stiamo vedendo che è molto più conveniente la speculazione finanziaria rispetto all’espansione tradizionale, credo sia difficilmente negabile che le licenze libere creino più posti di lavoro rispetto a copyright e brevetti. Prendiamo la stampa 3D: dal progetto RepRap sono nate nel mondo centinaia di aziende; alcune sono grandi (a livello di personale intendo), altre medie e altre piccole, ma di certo molti di quelli che oggi ci lavorano farebbero altro, se una sola azienda avesse detenuto un unico brevetto (per inciso: il brevetto c’era, sulla tecnologia FDM. E’ scaduto nel 2005, stesso anno in cui fu lanciato progetto RepRap). C’è poi ovviamente il tema che una scelta di questo tipo aumenta la possibilità di accesso alla tecnologia da parte della popolazione. In parte perché la suddetta concorrenza abbassa il costo del prodotto, e ovviamente perché (potenzialmente) chiunque può riprodurre a casa propria il prodotto stesso.