di Raffaele Angius 22 JUN, 2019
Le preferenze sessuali “minoritarie” rendono l’utente più facilmente riconoscibile nel regno dei dati, e questo può mettere in pericolo milioni di persone
Le icone di tre popolari app utilizzate da persone gay (foto: Daniel Acker/Bloomberg) Censura, sorveglianza, profilazione. Da luogo di scambio di informazioni e zona franca del confronto tra idee diverse, internet rischia di diventare sempre più uno strumento di repressione contro le minoranze maggiormente esposte. E in pericolo non c’è solo la libertà di espressione, che potrebbe venire compromessa dalla profilazione selvaggia delle nostre abitudini online, ma anche la sicurezza fisica di quanti utilizzano alcuni servizi informatici con poca prudenza o disattenzione.
È proprio su questi temi che, negli ultimi tempi, si è concentrata la comunità Lgbtq+ internazionale, nella consapevolezza che una maggiore formazione all’uso di internet e degli strumenti di anonimizzazione potrebbe contribuire drasticamente ad aumentare il livello di sicurezza di quanti sono perseguitati o oggetto di vessazioni in tutto il mondo per il loro orientamento sessuale.
Qualche esempio ci è dato dalla cronaca internazionale. A marzo di quest’anno un ventiquattrenne di Dallas è stato condannato per aver derubato, picchiato e insultato delle vittime attirate nella sua trappola grazie a Grindr, l’app più utilizzata dalla comunità. Con l’aiuto di un complice, l’uomo avrebbe assalito almeno sei vittime, costringendole a subire le vessazioni dei due. In modo simile, nel 2017 quattro uomini in Texas furono arrestati per la stessa ragione, e incriminati per aver commesso reati d’odio. Ma episodi di sostituzione della persona nelle comunità virtuali si ripetono quotidianamente anche in Italia, e spesso non vengono segnalati per paura di ritorsioni o del calvario che potrebbe seguirne.
“Tutte le minoranze, e in particolare quelle che raccolgono stigma sociale o sono perseguitate in vario modo, hanno ragione di preoccuparsi di ogni meccanismo che possa rendere più semplice schedarle e raccogliere informazioni sui loro comportamenti”, ha spiegato a Wired Stefano Zanero, professore associato in Computer Security al Politecnico di Milano. “Nel caso della comunità Lgbt, il problema è reso ancora più grave a causa dell’esistenza di applicazioni e siti di dating dedicati, che si prestano molto facilmente a profilature di vario genere, sia da parte delle autorità, sia da parte di singoli”.
Un caso esemplare potrebbe essere proprio quello della californiana Grindr, che nel maggio del 2018 è stata acquistata dalla società cinese Kunlun per 152 milioni di dollari. Secondo quanto documentato da un’inchiesta di Reuters, la Kunlun avrebbe permesso a degli ingegneri basati a Pechino di accedere “ai dati personali di milioni di cittadini americani”, che hanno potuto leggerne “i loro messaggi privati e lo status dell’Hiv”.
Sembra essere proprio questa la ragione per la quale la Commissione per gli investimenti esteri statunitense (Cfius) ha imposto che la proprietà del servizio fosse restituita a una società esterna alla Cina entro la primavera del 2020. Per Washington ci sarebbe il rischio che questi dati possano essere utilizzati dai servizi segreti cinesi per creare dei dossier sui dipendenti pubblici e sui militari americani: circostanza che metterebbe a rischio la stessa sicurezza nazionale del paese, oltre che quella dei suoi cittadini.
Ma andando oltre il grande gioco delle diatribe tra i servizi d’intelligence, un problema molto più concreto è proprio quello del trattamento e della conservazione dei dati. “Considerato che sono circa settanta i paesi in cui l’omosessualità è ancora un reato” – ha precisato Zanero – “bisogna tenere presente che queste applicazioni consentono la schedatura dei cittadini”. Tuttavia, il modello di business di gran parte dei servizi dedicati al dating si basa per lo più sulle pubblicità che sono in grado di raccogliere: “Per questo la loro collaborazione con questi paesi è estremamente limitata. Dall’altra, si tratta di servizi freemium, il cui utilizzo implica che l’appartenenza a una determinata minoranza venga segnalata ai circuiti pubblicitari, ampliando la profilatura commerciale a dati per loro natura sensibili”, conclude.
Lombroso.exe Secondo uno studio pubblicato dalla Stanford University, un’intelligenza artificiale sarebbe in grado di distinguere una persona gay da una eterosessuale soltanto guardandone le foto. O almeno questo è il risultato ottenuto dai ricercatori Michal Kosinski e Yilun Wang, che hanno istruito una rete neurale con un archivio di oltre 35mila fotografie condivise pubblicamente su un sito di dating americano. Secondo lo studio, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology, l’intelligenza artificiale sarebbe in grado di identificare l’orientamento sessuale di una persona nell’81 per cento dei casi per gli uomini e nel 74 per cento dei casi per le donne.
Controverso ed estremamente interessante, questo studio solleva importanti quesiti etici. Quante cose che sfuggono all’occhio umano possono essere viste da un’intelligenza artificiale? Che uso se ne potrebbe fare? A quali conseguenze potrebbe portare? Domande le cui risposte si possono declinare in modo sensibilmente diverso, che si voglia vendere un prodotto o ridurre al silenzio una minoranza. E di certo si tratta di temi che impongono ulteriore prudenza nell’installare app o condividere online la nostra vita privata. Quantomeno come misura preventiva: poco tempo prima che Kosinski pubblicasse la sua ricerca, una commissione formata dai più alti vertici del governo russo lo aveva invitato proprio a Mosca, per condividere con loro la sua esperienza nell’ambito del riconoscimento facciale, come ha raccontato lui stesso al Guardian.
Il diritto all’anonimato Telecamere su ogni muro, sensori in ogni tasca: eludere la sorveglianza digitale sembra impossibile. Soprattutto in un periodo nel quale la politica si scaglia sempre più spesso contro l’offuscamento delle identità, additato come vero responsabile della tanta violenza verbale che gira sui social network. “Ma chiedere un documento d’identità per consentire l’accesso a un social network, come taluni hanno proposto, è una cosa ridicola”, spiega Francesco Paolo Micozzi, avvocato esperto di diritto dell’informatica e nuove tecnologie.
“L’anonimato è una risorsa necessaria e non c’è ragione di impedirne l’uso a chi non compie dei reati. Tanto più che, quando si parla di social network, nessuno è veramente anonimo, anche se utilizza un nome falso. Per alcuni reati, come la diffamazione, potrebbe risultare inutile richiedere al social network l’indirizzo IP dell’autore del post diffamatorio – salvo ipotesi particolari – e anche in questo caso non dobbiamo ritenere di trovarci di fronte a diffamatori anonimi in quanto le tecniche d’indagine consentono di individuare l’autore a prescindere dalla comunicazione da parte del gestore del social network. Occorre anche considerare che le informazioni a disposizione dei social network, se comunicate in modo indiscriminato, sono in grado di esporre a gravissimi rischi i soggetti ai quali si riferiscano”.
“Detto questo” – prosegue Micozzi – “l’anonimato presuppone l’impossibilità di risalire all’identità della persona, e non è certamente il caso dei social network. Ma su questo tema si è espresso anche l’Article 29 Working Party (gruppo di lavoro composto della autorità nazionali di vigilanza e protezione dei dati, ndr), che ha sottolineato il fatto che a ciascuno debba essere garantito il diritto di esprimere le proprie opinioni in modo anonimo. Nella stessa direzione va la Carta dei diritti di internet, presentata nel 2015 dall’allora presidente della Camera Laura Boldrini, nella quale si fa esplicito riferimento all’anonimato come risorsa fondamentale per esercitare le libertà civili e politiche senza subire discriminazioni o censure”.
Dello stesso avviso è anche l’avvocata Stefania Stefanelli, docente di diritto privato nell’università degli studi di Perugia e membro dell’organizzazione per i diritti Lgbt, Rete Lenford: “È grazie a strumenti come Tor se abbiamo assistito al proliferare di movimenti come quelli delle Primavere arabe”, e prosegue: “Si tratta di possibilità di cui c’è ancora scarsa consapevolezza ma che danno la possibilità concreta di esercitare il diritto di essere anonimi” (il riferimento è al Tor Browser, software gratuito che consente di navigare anonimamente sul web e che viene utilizzato in tutto il mondo da attivisti, giornalisti e minoranze).
Come ha spiegato Stefanelli a Wired, l’anonimato viene riconosciuto come diritto in Italia a partire dal diritto all’anonimato della puerpera, che ha quindi facoltà di non riconoscere il figlio e di restare anonima. “Si tratta di un bilanciamento, dal momento che la legge riconosce pari diritti sia per la madre sia per il figlio, intesi come persone distinte. In questo senso, l’anonimato serve proprio per esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria persona, senza dover necessariamente andare incontro a conseguenze negative. Così come una madre può scegliere l’anonimato per ricrearsi una vita senza ricorrere all’aborto, in quanto Lgbtq+, una persona può utilizzare strumenti utili per dichiarare la propria sessualità senza venire discriminata”.
“Modalità Dio” Tirando le somme, il problema della privacy e della protezione della propria identità digitale diventa tanto più pressante quanto si è parte di una minoranza. Tutti sono identificabili, ma essere un’anomalia, cioè una difformità dalla regola generale, rende l’utente più facilmente riconoscibile nel regno dei dati. Limitato è anche il risultato ottenuto da regolamentazioni e interventi politici, che rimangono sostanzialmente ancora poco efficaci e ottengono più un effetto di mitigazione che non di tutela reale e ad ampio spettro, lasciando così che siano le grandi aziende ad autoregolamentarsi. Uno spunto di riflessione in tal senso lo offre Smithereens, episodio dell’ultima stagione di Black Mirror (seguono spoiler).
Nella puntata, lo staff di un social network dimostra di essere sempre un passo avanti a forze dell’ordine e servizi segreti nell’identificazione e profilazione di un sospettato. Al culmine dell’episodio, e dopo un monologo su quanto il capitalismo dei dati abbia avuto la meglio sulla sua creatura, è lo stesso fondatore della piattaforma – vagamente ispirato alla figura di Mark Zuckerberg – a invocare dal suo portatile la “modalità Dio”, che con un click gli consente di avere accesso a qualsiasi informazione dell’utente. “La sola cosa positiva della mia posizione” – ammette il personaggio – “è che di tanto in tanto devo invocare la modalità Dio”.
Per chi ama il cinema, questo passaggio potrebbe ricordare il celebre Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, nel quale Batman costruisce una mappatura in tempo reale di Gotham City sfruttando i segnali sonar ad alta frequenza dei telefoni cellulari degli abitanti, abilmente intercettati in modo da individuare Joker. Il film risale al 2008, ma già allora il personaggio di Lucius Fox (interpretato da un eccezionale Morgan Freeman) condannava tale tecnologia, pretendendone l’immediata distruzione non appena scovato il terrorista. “È un potere troppo grande nelle mani di una sola persona”, diceva il personaggio.
Dopotutto, solo un anno prima scoppiava il caso Nsa: la tecnologia di Batman non era fantascientifica già allora, né lo è oggi. La differenza sostanziale è che oggi un potere simile è nelle mani di più attori: decine di piattaforme, migliaia di app, milioni di server. Una situazione decisamente ribaltata rispetto a quella del lungometraggio e di fronte alla quale non possiamo fare altro che essere noi stessi quanto più possibile prudenti nel modo in cui utilizziamo la tecnologia. Nessuno spegnerà le macchine al posto nostro come nel Cavaliere oscuro, mentre è molto più probabile che qualcuno si possa sentire autorizzato a ricorrere alla “modalità Dio”. E ce ne scampi, se a farlo sarà qualcuno convinto di poter distinguere il bene dal male, o ciò che è naturale da ciò che non lo è.