Buono scuola

Concorrenza e buoni-scuola. Una riforma introdotta dai conservatori che e’ piaciuta ai socialdemocratici.Quando si parla di riforme, non manca quasi mai, soprattutto a sinistra, un riferimento al modello nordico. Svezia, Norvegia e Danimarca vengono additate come esempio di progresso e di modernità da imitare. Molto spesso quel modello è più un ricordo del passato che non un’accurata descrizione del presente. Lo Stato - mamma che si prende cura dei cittadini dalla culla alla tomba è sempre meno tale. A partire dagli anni ’80 si è arrestato il processo di espansione del ruolo pubblico nell’economia e, quindi, la crescita della spesa pubblica e della tassazione.

Ma lo Stato ha fatto un passo indietro altrettanto importante in un altro settore: quello della scuola, afflitto da problemi non dissimili dai nostri, livelli di apprendimento via via più modesti e diffuso malcontento sia da parte degli insegnanti che dei genitori. A partire dal 1992, è stato adottato sia nelle scuole dell’obbligo che in quelle secondarie il sistema di buono-scuola. In tale assetto, proposto a livello accademico già nel 1955 da Milton Friedman e, ancor prima, attuato in Olanda nel secondo decennio del XX secolo, viene meno il monopolio statale di fatto dell’istruzione che, per quanto si tenda a dimenticarlo, non è affatto la conseguenza diretta della volontà di garantire a tutti l’istruzione gratuita.

Immaginiamo infatti che lo Stato voglia garantire a tutti un diritto ancor più essenziale della scuola ossia quello dell’alimentazione. Per farlo potrebbe seguire due strade: dare ad ogni famiglia un contributo in denaro e poi lasciare che ciascuno scelga presso quale negozio di generi alimentari rifornirsi oppure creare una catena di attività commerciali di Stato e consentire a tutti l’accesso gratuito. Quale dei due sistemi funzionerebbe meglio? Quello nel quale sono gli individui e le famiglie a scegliere ed i produttori liberi di decidere quale servizio offrire oppure quello dove non c’è competizione o, meglio, si può optare solo tra gli esercizi con il bollino statale? In quest’ultimo caso chi desiderasse scegliere un altro esercente sarebbe costretto a pagare due volte: prima con le tasse per finanziare i negozi pubblici e poi per fare la spesa dove preferisce. Solo i più ricchi potrebbero farlo, proprio come accade oggi nel settore scolastico. I molti detrattori del buono scuola obiettano però che l’istruzione è diversa e non può essere paragonata ad altri settori. Le loro ragioni non sembrano però reggere ad un attento esame. Vediamone alcune: la scuola è un bene primario e non può essere lasciato al mercato. Ovviamente lo stesso ragionamento potrebbe essere svolto, e con più forza, per l’alimentazione ma, fortunatamente, finora nessuno l’ha fatto. Il sistema del buono-scuola è peraltro ben lontano dall’essere una soluzione di mercato: è una forma attenuata di socialismo che tenta di porre rimedio alle conseguenze più negative dell’intervento pubblico; ad esso sarebbe per molti versi preferibile l’alternativa che prevede di dare alle famiglie la possibilità di detrarre dalle tasse le spese sostenute per l’istruzione (il buono-scuola verrebbe erogato solo a coloro che, avendo redditi molto bassi, non potrebbero approfittare della riduzione delle imposte). le scuole private non possono essere finanziate con soldi pubblici. I soldi pubblici sono in realtà una finzione retorica: non esistono. I finanziamenti che lo Stato destina all’istruzione non sono “suoi”: sono stati prelevati dalle tasche private dei contribuenti. E’ il sistema attuale che obbliga tutti a pagare per la scuola statale sia che se ne vogliano sfruttare i servizi che nel caso in cui si preferisca rinunciarvi. il buono-scuola esaspererebbe i conflitti ideologici nella società. Ogni gruppo sociale finanzierebbe la propria scuola ed indottrinerebbe gli alunni che la frequentano. L’esperienza ci dimostra però che è vero il contrario. E’ in un sistema nel quale uno solo decide per tutti che vengono esaltate le contrapposizioni fra i diversi soggetti. E’ preferibile il maestro unico o il modulo? E’ meglio fare indossare il grembiule agli allievi oppure no? Ed il voto in condotta deve far media con gli altri? O, ancora: l’ora di religione deve far parte dell’insegnamento oppure no? E il Crocifisso deve rimanere nelle aule? Domande a cui si possono legittimamente dare risposte diverse. Ma, mentre nell’attuale assetto chi non condivide il punto di vista del Ministro pro-tempore (che sarà verosimilmente contraddetto dal suo successore) non ha altra strada che quella di scendere in piazza, protestare e, nella migliore delle ipotesi, arrivare ad una soluzione di compromesso, con il sistema del buono-scuola sarebbe libero di creare una nuova scuola, deciderne le regole e poi competere con altre offerte formative. E gli interminabili dibattiti che accendono ripetutamente gli animi delle varie componenti della società italiana non avrebbero più ragione di esistere. le famiglie non sarebbero in grado di scegliere la scuola migliore per i propri figli. L’argomento, come ha spesso ripetuto Dario Antiseri è, soprattutto per dei sinceri democratici, offensivo: uomini e donne cui a diciotto anni si affida il compito di scegliere il governo del Paese sarebbero, più avanti negli anni, incapaci di decidere qual è la scuola più consona per i figli. In ogni caso, una famiglia, quando sbaglia, sbaglia per uno; il Ministro, se sbaglia, coinvolge tutti nell’errore. Gli svedesi sembrano averlo capito. La riforma del settore, introdotta inizialmente da un governo conservatore e vista con scetticismo dai socialdemocratici, ha poi trovato il consenso anche di questi ultimi che, tornati al potere, non l’hanno abolita. Ai tempi della riforma vi erano solamente novanta scuole dell’obbligo non statali. Nell’anno successivo si passò a 166. Oggi le scuole private (cooperative di docenti, società profit e non profit) sono quasi seicento, frequentate da 75mila alunni, poco meno dell’8% del totale, percentuale in costante ascesa. Ancor più elevata, intorno al 13%, è la quota di studenti delle scuole secondarie indipendenti.

E la concorrenza, come in ogni altro settore, sembra aver stimolato a far meglio le stesse scuole statali. Perché non provare a seguirne l’esempio invece di continuare a cercare di imporci vicendevolmente, da destra e da sinistra, un presunto modello di scuola ideale e, nel contempo, assistere ad un progressivo degrado della qualità dell’insegnamento?

da Libero Mercato, 4 dicembre 2008

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Che poi diciamocelo: questa storia dei “servizi pubblici gratuiti” è una balla colossale. I servizi non sono mai gratuiti: o li paghi con le tasse, o li paghi con il biglietto/ticket/assicurazione. Per essere gratuiti chi vi lavora dovrebbe farlo gratis.

L’unica perplessità per le scuole private è il constatare cosa intendano molti genitori italici per “scuola buona”: quella che dà voti più alti. Non dicono siccome pago, pretendo un servizio decente (o meglio: lo dicono, ma appunto il “servizio decente” si riduce a “voti alti in pagella”). E’ anche vero però che in teoria, in un mercato veramente concorrenziale, se esci da una scuola con voti alti ma non sai un cazzo alla fine non ti assumerà nessuno, mentre quello che ha fatto una scuola più severa ma efficace dovrebbe essere avvantaggiato. Questo in teoria dovrebbe spingere i genitori a pretendere qualità, anziché solo voti alti.

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Sono gratuiti per chi non paga le tasse.

No, non sto pensando agli evasori che, di fatto, commettono un furto ai danni della collettività.

Sto pensando ai poveri. Ma non quelli “alti”. Quelli proprio… poveri.

Sì… la teoria della concorrenza liberale… la mano invisibile…

Purtroppo, in pratica, una teoria sbagliata rimane… come dire… sbagliata.

Oppure si difendono da un furto fatto dalla collettività utilizzando lo Stato. Le tasse hanno ragione di essere entro una certa soglia, oltre siamo nel dirigismo economico e nel centralismo.

No, il costo del servizio viene addebitato ad altri,oltretutto questo avviene perché non si riesce ad uscire dalla dicotomia Stato/Privato mentre si potrebbe pensare ad altre forme non centralistiche di assistenza.

Personalmente ritengo che il profitto abbia una ragione di essere entro una certa soglia.

Il nostro pianeta ha risorse finite ed è un bene comune.
Attraverso la sua mera esistenza ci vincola reciprocamente.

Qualsiasi allocazione delle risorse disponibili che permetta la fame o causi la guerra, è irrazionale.

La storia ci ha dimostrato come centralismo e dirigismo abbiano portato fame, miseria e guerre,non so quindi su che base sostieni il contrario.

Il problema è che tu contrapponi Stato e Big Business e non riesci a vedere che sono interdipendenti, mentre non riesci a vedere la contrapposizione tra libero mercato (utilizzato a scopo difensivo) e BigCorporation/Big Business, e questo perché non esci dal recinto centralista e statalista.

il capitalismo, secondo Warren, Tucker, Spooner (e quindi nella tradizione libertaria americana) non è tanto il libero scambio, il mercato, non è un sistema sociale ed economico fondato sull’imprenditore e sulla sua originalità, ma è un sistema che si fonda sul principio della protezione del più debole, quindi si fonda sulla sovranità del consumatore e nella difesa del consumatore deve trovare il suo centro.

Io stavo solo dicendo che se esci da scuola ignorante è meno probabile che un’azienda ti assuma. Cosa c’entri Smith non mi è chiaro, né tantomeno perché quella sulla concorrenza sarebbe “una teoria sbagliata”.

Questo è il classico punto di vista cattolico. Lo spiegava egregiamente Pekka Himanen nel suo saggio sull’Etica Hacker: la differenza fondamentale tra i cattolici e i protestanti è come concepiscono il lavoro e l’arricchimento. Non a caso, l’interpretazione che danno della Genesi è diametralmente opposta: nella Genesi la beatitudine dell’uomo consiste nell’avere a disposizione tutto senza dover fare nulla da mattina a sera, perché c’è appunto Dio che, nella veste di Padre buono, ha fornito loro di tutto. Il lavoro è addirittura la punizione che Dio infligge ad Adamo, dopo che ha peccato. E questa ovviamente è l’interpretazione “giusta”, nel senso che nell’antichità il lavoro era talmente duro che la condizione di beatitudine era logicamente il poterne fare a meno). Per i protestanti invece il lavoro (e il profitto che ne deriva) è lo scopo della vita stessa, dunque reinterpretano la Genesi asserendo che Dio ha in realtà finto di punire Adamo & Eva, in realtà facendo loro il più grande regalo in assoluto: la necessità di lavorare. Ovviamente non mancano anche nel Nuovo Testamento certi proclami pauperistici, a partire dalla celeberrima frase “è più facile che (la corda fatta con la pelle di) un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”.

Quest’idea che il profitto, superata “una certa soglia” (ovviamente del tutto arbitraria) diventi ipso facto inaccettabile è comunque condivisa anche dall’altra grande corrente culturale politica italiana che ha imperversato nella Prima Repubblica, cioè quella comunista. E ha posto le basi culturali del grillismo, o almeno di quello delle origini.

Prima del liberalismo la guerra era l’unico sistema per allocare le risorse. La storia dell’antica Grecia si riduce a una continua guerra tra le poleis per accaparrarsi quei pochi e infruttuosi pezzetti di pianura di cui quel Paese dispone. Poi per fortuna l’umanità ha capito che era meglio commerciare e ingegnarsi per aumentare la produttività, cosicché ce ne fosse per tutti. E’ vero che oggi c’è un gigantesco problema di disponibilità di risorse, ma la soluzione è continuare a ingegnarsi (economia circolare, riuso, riciclo, carne artificiale).

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