Rielaboro qui una risposta che Shamar ha già ricevuto in privato. In una prima approssimazione il tuo discorso potrebbe rimaner comprensibile se al posto di informatica mettessimo filosofia, e invece delle dicotomia informazione/ dati si usasse quella logos - grammata (nel senso di rappresentazioni sensibili ma dotate di intenzionalità) Per intenzionalità si intende che tali rappresentazioni sono state “scritte” allo scopo di rappresentare qualcosa. Logos in greco significa sia “discorso” sia “ragione” - per dire che il suo oggetto è composto da nozioni comunicabili intersoggettivamente. La definizione aristotelica dell’uomo era zoon logon echon, cioè essere vivente capace di discorso/ragione: nulla, naturalmente, vieta di pensare a esseri razionali non umani (https://en.wikipedia.org/wiki/The_Devil_in_the_Dark). Per riconoscerli come tali dovremmo però ammettere che abbiano un loro logos e che noi sappiamo riconoscerlo o almeno sospettarlo come tale.
Tutto quello che diciamo - non solo i programmi che scriviamo - modifica il mondo e crea automatismi. Si pensi per esempio all’oratoria di chi è avvocato di mestiere: a me personalmente irrita, perché mi sento manipolata, ma che in sede processuale non scientifica può essere efficace al suo scopo - che è quello di convincerti, cioè di “programmarti”.
Platone, per esprimere ciò, inseriva fra il sapere (pensiero di chi sa perché) e i grammata (rappresentazioni morte che devono essere riconvertite in sapere) la doxa o opinione (pensiero di chi sa che). Un società che funziona secondo opinioni, anche corrette, è una società automatizzata ed esposta al “malfunzionamento” perché i suoi componenti sanno che fare ma non sanno perché lo fanno, e quindi sono esposti all’errore in situazioni non previste dalla cultura che li ha “programmati”.
Il debugging (cercare ciò che rende un discorso disfunzionale rispetto al suo scopo dichiarato, o allo scopo di chi cerca di ritrasformarlo in sapere) non è un’esclusiva dei programmatori: è quanto fa per esempio uno studioso di filosofia con i suoi testi, o uno storico quando vaglia l’attendibilità di una fonte, o Copernico col sistema tolemaico - che funzionava ottimamente, ma riusciva a spiegare le fasi dei pianeti interni e i moti retrogradi dei pianeti esterni solo con l’ipotesi ad hoc degli epicicli.
La mia domanda dunque è: è appropriato definire l’informatica come una scienza universale del logos? Si può rispondere in due modi diversi, a seconda di quanto si voglia legare l’informatica all’arte di scrivere programmi - i quali, rispetto ai discorsi, sono un mero sottoinsieme. Però se si slega l’informatica dalla programmazione (o meglio, dal trattamento automatico dell’informazione) si ottiene qualcosa di molto simile alla filosofia.
La metto in modo diverso: per il filosofo una società che funzionasse esclusivamente tramite l’opinione corretta, cioè con una automazione perfetta ma senza consapevolezza, sarebbe un male perché a medio e lungo termine verrebbe a mancare il sapere e la ricerca del sapere: per un informatico invece un settore del mondo che girasse secondo un programma scritto da lui e perfettamente adeguato al suo scopo che cosa sarebbe? Un successo o un insuccesso professionale?
Storicamente, almeno in occidente, le scienze sono nate come filosofia (vi ricordate di Talete, Anassimandro, Anassimene?) e poi si sono via via separate da essa: Pitagora era capo di una setta mistico-filosofica nella quale i matematici erano gli iniziati, all’epoca della rivoluzione scientifica moderna i fisici chiamavano ancora se stess filosofi naturali, Adam Smith, uno dei padri dell’economia politica moderna, insegnava filosofia morale all’università di Edimburgo, e così via. Con questo il mio scopo non è argomentare a favore del primato della filosofia: voglio piuttosto dire che tutte le discipline che ne sono figlie partecipano dello spirito della filosofia. E se vogliamo possiamo pure cercare di farle tornare “a casa”: ma come riuscirci senza eliminarne la specificità?
Da un altro punto di vista, storico culturale, le tue riflessioni possono essere lette come un sintomo: l’aspirazione a ricostruire un discorso comune in un mondo frammentato dallo specialismo (Lucio Russo, La cultura componibile, 2008) - che significa sapere niente di tutto, e tutto di niente - e dunque anche finire a scrivere programmi senza più chiedersi perché lo facciamo.