Talvolta le mie convinzioni sulla auspicabilità della condivisione più totale dei dati delle ricerche, nell’ottica degli open data, e più in generale sulla desiderabilità di una società dove tutta la conoscenza è condivisa si scontrano con una realtà che mi fa avere dei ripensamenti: la resa pubblica delle classifiche e di indicatori che misurino la “qualità” di istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.
Le classifiche delle università pubblicate dall’agenzia di rating ANVUR, ad esempio, penso che siano dannose, perché incentivano le diseguaglianze anziché combatterle. Chi proviene da famiglie con status socioeconomico più elevato, infatti, conoscendo queste classifiche, verrà indirizzato verso le “migliori”, mentre chi non può permettersi di andare a studiare fuori sede resterà confinato alle “peggiori”, pur essendo tutte pubbliche e che, quindi, dovrebbero essere potenzialmente equivalenti. Inoltre le università ricevono fondi anche in base alla loro posizione nelle classifiche, innescando così dei circoli viziosi che rendono le università “virtuose” (del nord) sempre più ricche e le università in basso nelle classifiche (del sud) sempre più carenti. I privati spesso usano queste classifiche per valutare la bontà della laurea di chi si propone per un lavoro, fregandosene dell’equivalenza formale del titolo di studio. Quel che penso che sia ancora più grave è che, anche nel settore pubblico, ci sono in continuazione proposte per sostituire l’equivalenza legale del titolo di studio conseguito in università pubbliche con un punteggio determinato dalla posizione nelle classifiche dell’università in cui ci si è laureati. Queste proposte vengono incredibilmente non solo dalla Lega e dal centro destra, ma sono sorte anche dall’ala radicale e renziana del PD. Queste classifiche pubbliche incidono molto anche sulla ricerca scientifica in un modo indesiderabile, ma questo argomento è talmente vasto che rischierebbe di mandare fuori tema questo post.
Per la scuola, invece, l’INVALSI adotta delle strategie diverse. Ogni istituto, anno per anno, ha sì il suo punteggio insieme a vari indicatori, rapportato alle altre scuole, ma essi non vengono resi pubblici e la loro consultazione è riservata esclusivamente al dirigente scolastico. L’idea è che quegli indicatori non dovrebbero essere usati per redigere una classifica pubblica delle scuole, ma solo per fornire al dirigente degli strumenti e delle informazioni in più per decidere se le politiche scolastiche che ha adottato fino a quel momento sono state efficaci o meno, allo scopo di aumentare la qualità della didattica. In questo modo si dovrebbe evitare che si formino delle scuole “bene” e delle scuole “ghetto”. Ma ahimé, le migliori intenzioni spesso si scontrano con la realtà, e questi indicatori, spesso e volentieri, vengono usati dai dirigenti per farsi pubblicità rendendoli pubblici (per la propria scuola) nel caso che essi mostrino una situazione virtuosa, e invece nascondendoli nel caso mostrino delle criticità.
C’è chi spinge affinché anche per la scuola le classifiche siano pubbliche, come quelle dell’università.
Sebbene io sia, solitamente, per l’Open Data più totale, penso che in casi come questi la divulgazione al pubblico di questi dati possa favorire l’acuirsi delle diseguaglianze sociali ed essere pertanto indesiderabile.
Voi che pensate in proposito?