Ho trovato molto interessante questo articolo sul Center for a Stateless Society. Questa distinzione tra mercato e capitalismo è oggetto di un libro intero, ma questo articolo mi pare riassuma i punti fondamentali. La descrizione che viene fatta dei leftwing-libertarian mi pare abbastanza simile a quella dei pirati.
Al contrario dei libertari non di sinistra, che sembrano disinteressati, se non ostili, alle questioni dei lavoratori, i libertari di sinistra simpatizzano con la lotta dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni (Bastiat e Tucker erano a favore delle associazioni di lavoratori). Ma nutrono poche simpatie per i sindacati burocratici omologati dallo stato, che rappresentano poco più di ciò che è rimasto dopo la soppressione dei movimenti spontanei e autogestiti di mutuo supporto che, con la simpatia “non autorizzata” per gli scioperi e i boicottaggi, caratterizzavano l’epoca precedente il New Deal. Proprio per questo prima della Wagner Act, approvata con il New Deal, grossi rappresentanti del mondo aziendale come Gerard Swope della General Electric volevano la regolamentazione del lavoro.
I libertari di sinistra tendono inoltre a considerare sfavorevolmente il lavoro salariato e la gerarchia aziendale, spesso autoritaria, a cui è soggetto. Oggi il lavoratore è impedito da un insieme di regolamenti, tasse, leggi sulla proprietà intellettuale e sovvenzioni che servono a impedire l’ingresso a potenziali alternativi datori di lavoro e ai lavoratori autonomi. A ciò si aggiungono le periodiche crisi economiche innescate dal debito pubblico nonché dal modo in cui la banca centrale e le banche ordinarie gestiscono il denaro, che minacciano di lasciare i lavoratori senza lavoro e li pongono ancora più alla mercé dei capi.
La nascita di cartelli per evitare la concorrenza indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori, dando l’opportunità ai datori di privarli di una parte dello stipendio che altrimenti riceverebbero in un ambito economico veramente liberato, in cui i datori devono competere tra loro per ingaggiare i lavoratori, e non il contrario, e il lavoro autonomo, in cui non esistono licenziamenti, offrirebbe una via d’uscita dal lavoro salariato. Il lavoro autonomo avrebbe i suoi rischi, ovviamente, e non sarebbe adatto a tutti, ma potrebbe attirare più persone se lo stato non rendesse il costo della vita, di una decente sussistenza, artificialmente alto in tanti modi: dai regolamenti edilizi ai vincoli territoriali agli standard produttivi, i trasporti sovvenzionati, la sanità pubblica. (sic!)
Per un libertario di sinistra, un mercato liberato porterebbe al calo del lavoro salariato e una crescita degli autonomi, delle cooperative, delle associazioni e delle ditte individuali. Oggi tutto ciò è più che mai possibile grazie all’accessibilità dell’informatica, internet e le macchine utensili a basso costo. Nel mercato liberato no esiste la socializzazione dei costi tramite i trasporti sovvenzionati, che favoriscono il commercio nazionale a discapito di quello regionale e locale. Uno spirito di indipendenza potrebbe spingere verso queste alternative anche perché lavoro dipendente significa in un certo senso essere soggetti al volere altrui e alla spada di Damocle del licenziamento. Spinto dalla concorrenza del lavoro autonomo, quel poco lavoro salariato che resterebbe sarebbe confinato in aziende meno gerarchizzate, con rapporti più umani, senza favoritismi politici, impossibilitate a socializzare le diseconomie di scala come fanno le imprese attuali. (…)
Fedeli alla tradizione, i libertari di sinistra stanno anche dalla parte di altre categorie oppresse: i poveri, le donne, le persone di colore, i gay, gli immigrati con o senza documenti. Un libertario di sinistra vede nei poveri non pigri opportunisti, ma vittime della miriade di barriere imposte dallo stato all’autosufficienza, al mutuo aiuto e ad un’istruzione dignitosa. Ovviamente sono contro lo stato che opprime le donne e le minoranze, ma anche contro forme di oppressione sociale come il razzismo e il sessismo. E, trattandosi di oppressione non violenta, anche l’opposizione è condotta in modo non violento e senza servirsi dello stato. Le discriminazioni razziali o di genere, ad esempio, vengono combattute con il boicottaggio, la pubblicità o le manifestazioni, non con la violenza o le leggi antidiscriminazione. Per un libertario, il modo migliore per combattere la segregazione nelle tavole calde un tempo attuata negli stati del sud sarebbe stato il pacifico sit-in, non le leggi approvate a Washington, che semplicemente ratificavano l’azione diretta senza il supporto delle élite bianche. (…)
In poche parole, i libertari di sinistra sono per l’eguaglianza. Non quella materiale, che può essere ottenuta solo con l’oppressione e il soffocamento delle idee. Né l’eguaglianza sotto la legge, perché la legge può essere oppressiva. E neanche l’eguaglianza nella libertà, perché poca libertà uguale per tutti è intollerabile. Piuttosto è quella che Roderick Long, ispirandosi a John Locke, chiama eguaglianza nell’autorità: “Un’eguaglianza ispirata al pensiero di Locke significa non solo eguaglianza davanti ai legislatori, i giudici e le forze di polizia, ma anche, cosa più importante, eguaglianza tra i legislatori, i giudici e le forze di polizia e tutti gli altri.”
Come tutti i libertari, infine, i libertari di sinistra sono contro la guerra e l’imperialismo americano. La loro è un’analisi essenzialmente economica dell’imperialismo: le imprese privilegiate vogliono accedere alle risorse e ai mercati esteri in cui scaricare le produzioni in eccesso, nonché imporre la proprietà intellettuale nelle società industriali emergenti per impedire che i produttori esteri abbassino i prezzi con la concorrenza (ovviamente ci sono anche fattori politici dietro l’imperialismo).