C’è un bell’articolo questa settimana sull’inserto letterario del Corriere a firma di Sergio Romano intitolato, evocativamente, «Utilità della sconfitta Illusioni della vittoria». Parla di come i vincitori non siano quasi mai nelle condizioni di superare i propri limiti e di come i perdenti imparano a reinterpretare la realtà spesso superando ampiamente in valore i vincitori. L’occhiello recita: «A ottanta anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, Berlino domina l’Europa nonostante il tracollo del 1945, mentre l’Urss, all’epoca trionfante, si è dissolta e perfino l’egemonia americana sembra vacillare. Quanto all’Italia, nonostante la disfatta e la perdita delle colonie africane, ha vissuto il boom economico e tuttora è una potenza industriale di rilievo».
In politica la vittoria ha molti livelli di lettura. Qual è il tuo obiettivo? Conquistare il potere per sostituire il regime che tu ritieni sbagliato con un nuovo regime (eventualmente altrettanto sbagliato perché il potere, invece di farsi cambiare da te, ti ha cambiato) ma che veda in te il proprio riferimento, o cambiare le cose a vantaggio delle persone? Quale delle due cose consideri “vittoria”? Io la seconda.
Per cambiare le cose non è necessario che sia tu a vincere (forse la lettura di un bel libro di Jacques Attali, «Il risveglio degli umiliati» potrebbe tornare utile).
Si può avere una “vocazione maggioritaria” pur essendo una infima minoranza, quando si riesce a rovesciare, a favore delle persone che sono maggioranza, quello che il potere non vorrebbe fosse cambiato (sono gli esempi a cui si rifaceva @storno). Mentre si può continuare ad essere minoritari e gruppettari pur avendo la maggioranza della rappresentanza (si veda il caso emblematico del M5S - che poi non è così tanto differente dal PD), proprio perché si continua a rappresentare esclusivamente il proprio gruppo o idea. D’altro canto che il concetto stesso di rappresentanza sia avariato credo sia ampiamente condiviso. Chi è ammesso al potere è necessariamente cooptato dal regime, sostituirlo non significa spiazzare il regime, ma venirci piazzati.
L’obiettivo quindi non può essere quello di sostituirsi al potere, e quindi diventare potere uguale e opposto, quanto indurre il potere a “fare la cosa giusta”, ovvero a rispettare non le nostre idee e i nostri “voti”, quanto le proprie stesse idee e le proprie maggioranze. Agire da scossa in una soluzione sovrassatura quando non congela come dovrebbe.
In Italia in campo sociale, nel diritto di famiglia, sui diritti umani e sugli aspetti relativi alla dignità umana, sono state anni e anni di battaglie “perse”, a permettere comunque il lentissimo avanzamento della civiltà, stante la cappa anti-popolare della rappresentanza catto-comunista che aveva semplicemente orrore che le masse “conquistassero” la propria autonomia individuale. Talvolta sono state intuizioni geniali e controcorrente (come quella di sostenere il referendum abolizionista del divorzio dei cattolici, mentre tutti i partiti laici tentavano di brigare per evitarlo) a stabilizzare una vittoria sociale nel paese, che era comunque una scelta interna del “regime” (come la legge Fortuna-Baslini, che senza il referendum popolare, e quindi senza il “dare le armi” dei radicali ai cattolici, sarebbe miseramente crollata - ricordiamo che furono i cattolici, maggioranza (loro) del paese, a votare contro le proprie stesse rappresentanze politiche e a favore del divorzio, non furono certo i radicali ad essere maggioranza nel paese).
C’è un famoso libro di Gaetano Dentamaro (noto per essere il papà in Italia delle “Interviste per Strada” di Radio Radicale) che nel rendere conto della candidatura fallita di Marco Pannella come commissario CEE spiega come quell’atto, che era destinato chiaramente a perdere, si sia tramutato in una incredibile vittoria non per Pannella o per il Partito Radicale, ma per l’intero insieme delle forze laiche italiane e anche oltre. Il libro si chiama “Perdo & Stravinco” e ha una bella fotografia di Pannella in copertina.
Insomma le categorie di «vincere» e «perdere» hanno molte più chiavi di lettura che la semplice (e banale) idea di: ci si presenta alle elezioni, siamo più del 50%, governiamo, cambiamo le cose. Questa è la distorsione che il regime pretende di imporre agli oppositori per renderli inefficaci e per poterli aggredire quando via via progrediscono nel consenso, per farli diventare cosa propria. È l’illusione del centralismo democratico applicato su scala globale.
Se vuoi cambiare le cose devi essere in grado di abbandonare la tua volontà di primeggiare. Il che non significa candidarsi a perdere, ma l’esatto opposto: candidarsi a vincere nella società e non nel fasullo teatro del potere per il potere. Poi, se vuoi veramente cambiarle, allora la strada è ancora diversa, e riguarda la politica solo in quanto riguarda la modifica del sé (cfr. Attali cit.).
Governare, in ultima analisi, non serve a cambiare le cose. Governare serve a gestire una situazione che vedrebbe un cambiamento se questo venisse dal di dentro. Ma pensare di governare per cambiare è l’illusione definitiva degli statalisti, se non degli autoritari.