Dicotomia tra software proprietario e software libero

Viste le differenze di opinione sulla coesistenza di software libero e proprietario, pongo un piccolo spunto di riflessione:

Liquid Feedback è un software sviluppato in origine da alcuni membri del PP tedesco (poi usciti dal partito) e rilasciato con licenza MIT, una licenza libera ma senza copyleft, perché permette il riutilizzo nel software proprietario con il solo obbligo di distribuzione della licenza: il software può essere modificato e distribuito con licenza chiusa anche senza codice sorgente.

Come si pone il PP rispetto a questa scelta?

Quindi per esempio Collodi non é proprietario di Pinocchio, mi hai fatto rendere conto che sono stato impreciso nella definizione, non mi riferivo alla proprietá nel senso che ne posso disporre, ma nel senso che ne sono autore e ho speso delle energie per costruire quel prodotto e quindi voglio che mi sia riconosciuto.

Sulla questione del software acquistato, con o senza hardware, condivido le tue posizioni.

Trovo che l’esempio di office vs automobile non calzi bene, non é possibile duplicare le automobili con un milionesimo del costo di produzione. Quindi penso che la ditta debba essere libera di scegliere in quale modo intende sostenere il costo di produzione.

Accetto l’idea che il free software la metta in termini etici, mentre l’open-source sia piú pragmatico. Quindi dal punto di vista di un’associazione che propone l’utilizzo del software in termini etici é migliore la definizione della FSF. Peró ti faccio notare che il software non é etico. Il software esegue quello che gli viene chiesto, é possibile usare postgres per schedare tutti gli armeni in turchia, eseguire una eticissima SELECT e mandarli tutti all’olocausto. Quindi mi chiedo se é veramente possibile teorizzare la libertá attraverso l’uso di free software.

Inoltre secondo il ragionamento che Stallman fa nel suo articolo, si conclude che GPL-2 é open-source e GPL-3 é free software. Se non fosse che le ha scritte tutte e due lui.

Mi piace il tuo appunto di Liquid Feedback, dal mio punto di vista, non é un problema grave, ma immagino che per i piú integralisti sia un bell’argomento. Su questa cosa ho un giudizio sospeso.

Infatti la questione etica non è sul software come prodotto ma sulla licenza del software. L’equivoco sulle GPL dipende dal fatto che la versione 3 include accorgimenti che aggiornano la licenza in funzione di nuove tecnologie e problematiche (es: i brevetti) che non c’erano durante la stesura della versione 2. La critica di Stallman riguarda il fatto che alcune licenze opern source non ne tengano conto.

Su questo la legge (italiana ma non solo, credo) distingue i diritti in vari generi:

Quello a rivendicare la paternità dell’opera un diritto personale, ed è inalienabile. Invece i diritti di tipo patrimoniale possono essere ceduti in cambio di una percentuale: è quello che avviene quando uno scrittore stipula un contratto con una casa editrice. Quest’ultima diventa titolare unica dei diritti patrimoniali su una certa opera, e corrisponde una percentuale (nella migliore delle ipotesi un 10%) sulle vendite all’autore.

In un mondo senza copyright, gli autori potrebbero vendere le opere a più di una casa editrice. Così avresti uno stesso libro che magari costa 20€ in edizione Mondadori, 10€ in versione ultra-tascabile scritto minuscolo edizione Sperling & Kupfer. Del resto, è quello che già avviene oggi con i classici.

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Il copyright non impedisce in alcun modo di vendere un’opera a più editori. Quella è una questione contrattuale tra autore ed editore, un accordo tra le parti.

Il copyright dà agli autori dei diritti. Cosa farci con quei diritti dipende da ogni singolo autore.

Tra l’altro, non è inusuale cedere i diritti in modo non esclusivo. Succede ogni volta che si pubblica una foto su Facebook. Molti libri possono essere acquistati da più case editrici. Think Python, per esempio, può essere preso a 25 euro da O’REilly o da Green Tea Press con offerta libera (o anche a gratis). Udemy prevede la possibilità di vendere i propri corsi anche separatamente dalla piattaforma.

Tutto vero, ma parlavo delle case editrici “tradizionali” italiche. In genere i contratti che propongono prevedono la cessione dei diritti in modo esclusivo. E diciamocelo: se non ti sta bene non pubblichi (in teoria puoi ricorrere al self publishing, ma per ora é un fenomeno che qualcuno ha ribattezzato “vanity press” per motivi facilmente intuibili)

Scusami @ale, ma non è esatto e purtroppo questa confusione molto diffusa partecipa al processo di marginalizzazione del software libero e degli hacker a vantaggio del open source e del mercato.

Il software libero è software sviluppato da persone che adottano l’etica hacker, che perseguono la propria curiosità (sia essa tecnica, politica o sociale), ma tale sviluppo è un atto politico ed è tanto pragmatico quanto è pragmatico il software open source o quello proprietario.

Il software open source non è più “pragmatico” è semplicemente amorale: sollevato dai valori dell’etica hacker e dai conseguenti obiettivi politici e sociali, il software open source diventa un potente strumento di marketing.

Marketing personale (far curriculum) o aziendale (entrare in una nicchia di mercato, per esempio).

Il marketing del software open source è assolutamente legittimo ed il software open source è (quasi sempre) compatibile con il software libero. Il problema si pone quando i due vengono confusi, per esempio nel termine FLOSS.

Anzitutto perché nel mix, i valori (reali solo in una parte) si diluiscono: l’OSS se ne veste senza praticarli, il FS li pratica ma si trova per questo in svantaggio nei confronti dell’OSS che ottiene finanziamenti molto maggiori. Inoltre stabilendo ed espandendo l’egemonia culturale del capitalismo statunitense, marginalizza gli hacker che si rifiutano di sottostare alle regole di condotta di un ufficio statunitense quando donano le proprie competenze al mondo come volontari.

Ma la differenza fra i due è soprattutto pratica: la governance di un progetto OSS è profondamente diversa dalla governance di un software libero. E se non le conosci e distingui, prima o poi incontrerai sorprese spiacevoli.

[quote=“ale, post:7, topic:2738”] Non mi é chiaro come vorresti finanziare il software “da tasse sul suo utilizzo”, se il software é gratuito come puoi tassarlo? [/quote]

Questo è semplice: visto che il software è uno strumento produttivo, andrebbe tassato il suo uso aziendale.

In altri termini: i privati cittadini dovrebbero avere accesso gratuito ai sorgenti di tutto il software che utilizzano, in qualsiasi condizione, sia direttamente che attraverso un proxy o “as a Service”. Le aziende che usano software a qualsiasi titolo, dovrebbero dichiararlo e pagare una tassa per ciascuno di essi.

Nota che il software sarebbe tutto libero: le aziende non pagherebbero più alcun software, solo le tasse sullo stesso.

Per finanziare lo sviluppo, si ridistribuirebbe quelle tasse agli sviluppatori, in base alla diffusione e fino ad un tetto massimo. Cioè visto che Linux è più usato di iOS, gli sviluppatori di Linux ricevono più soldi di quelli di iOS, ma entro un tetto massimo (e.g. max 100.000€ annui a sviluppatore, ma sulla definizione del quanto precisamente non ho mai ragionato). Tutto quello che avanza finisce in ricerca e sviluppo: gli sviluppatori di sistemi operativi nuovi, le università etc…

Quanto paghi il software proprietario equivalente.

Ma non tu, solo le aziende che lo usano pagherebbero questa tassa. I cittadini no.

Un buon politico non pensa alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni. :wink:

No, se abroghi la possibilità di non distribuire i sorgenti e vietarne la modifica, il software proprietario cessa di esistere. E il mondo non cambierebbe poi così tanto, per la verità.

Il principio dovrebbe essere semplice: se uso un software, lo posso leggere, modificare e ridistribuire.

Anche questo è un falso mito della propaganda capitalista.

La stragrande maggioranza delle innovazioni vere della Silicon Valley sono di origine militare. Ovvero sono finanziate dal Governo degli Stati Uniti d’America. Governo che controlla di fatto tutte le aziende che recitano da campioni della libertà del mercato fuori dagli Stati Uniti. Una buona lettura in proposito è stata Limes 10/2018. Il numero titolato “La Rete a stelle e strisce” spiega bene alcune dinamiche economiche della Silicon Valley che sfuggivano anche a me. Una breve presentazione del numero è disponibile su YouTube

torify youtube-dl https://youtu.be/-mrZiZZqAcQ

Esistono eccezioni di vera innovazione aziendale. Per esempio la Programma 101 è stato il primo desktop computer programmabile del pianeta terra ed è stato inventato ad Ivrea. In piena guerra fredda fu definito “un neo da estirpare in un’azienda per il resto solida” (la Olivetti). Vendette migliaia di esemplari, ma solo negli Stati Uniti che la copiarono.

Pensa come sarebbe il mondo oggi se avessimo avuto politici competenti in informatica allora. Invece di Google e Microsoft, avremmo una miriade di aziende italiane ed europee nate sul modello illuminato di Olivetti.

Dipende. Alcuni software sono neutrali, altri per nulla. :wink:

Per il resto @Exekias ha esposto praticamente tutto ciò che avrei detto.

Aggiungo solo che la libertà del software dipende anzitutto dall’accesso dell’utente al sorgente e dai diritti che questo ottiene o trasferisce attraverso l’uso e la distribuzione dello stesso.

Sono d’accordo.

Solo coloro che li usano e coloro i cui dati vengono trattati da un software dovrebbero avere il diritto di accedere al suo sorgente e modificarlo, eseguirlo e ridistribuirlo a loro piacimento.

Ma se scrivo un software per me, che uso solo io, nessuno può impedirmi di tenerlo segreto o impormi di pubblicarlo.

Certo hai ragione tu. Il mondo verrá salvato dagli Hacker, che sono migliori degli altri perché lo studio dell’informatica gli permette di diventare esseri superiori, avranno stipendi statali ottenuti grazie alla tassazione sulle aziende che usano software libero.

Contro-esempio: le sedie esistono. Faccio il confronto del software con la costruzione di un oggetto fisico, una sedia. Qualcuno può inventarsi una sedia particolarmente bella, che la gente ama comprare. Qualcun altro vede come è fatta la sedia e la può copiare. Il brevetto gli impedisce di lucrare sulla genialità del autore originale. Se per le sedie i brevetti funzionano, il problema in ambito software si è creato solo data la particolarità che il sorgente si trasforma in eseguibile. Possiamo decidere che questa particolarità tecnica è una stortura del mercato e che il software deve comportarsi come le sedie, ed essere studiabile — sempre e comunque.

Ma in questo caso non è una libertà per il cliente bensì per l’azienda. E se in certi casi da il potere all’azienda di manipolare le menti dei clienti ed impedire libere elezioni democratiche, forse è il caso di considerare bene necessari limiti delle libertà aziendali.

Del resto può starci il pensiero di dare la libertà agli individui di arrecarsi dei danni, ma la scelta individuale di aderire a Facebook è un danno contro la propria rete sociale dato che crea pressione contro gli amici e mette in pericolo la democrazia in generale. Perciò in questo caso l’individuo si prende una libertà che non gli appartiene.

No. Finché esiste la possibilità tecnica di distribuire codice eseguibile senza il codice sorgente, il copyright ha solo un ruolo secondario.

Ci serve una implementazione diversa dei brevetti sul software. Una che tuteli solo le cose legittime da tutelare, ma che permetta l’esistenza di un mercato software anche se il codice proprietario divenisse illegale.

Esatto. Questi concetti vanno riformati, adattati, ma devono essere applicati anche al software dato che il codice eseguibile opaco eseguito su macchine con accesso alla Rete è un abbinamento troppo potente. Perciò l’errore nostro fu che al tempo ci siamo scagliati contro i brevetti software e abbiamo favorito il codice proprietario.

si dovrebbe lasciare ai proprietari del software la libertá di scegliere sotto quale licenza rilasciarlo

Questo lo facciamo comunque. In futuro diverrebbe frequente rilasciare codice sorgente con la limitazione che può essere usato solo nella sua esatta forma per riprodurre gli eseguibili in uso.

Ormai i smartphone hanno più potenza d’elaborazione dei PC di una volta.

In questo caso i codici che fanno abuso dei nostri dati (data mining, sorveglianza, AI, manipolazione elettorale ecc.) non verranno rilasciati… magari viene addirittura negata la loro esistenza. Ci viene detto che il cloud esegue solo open source e noi non possiamo controllare.

Da dove viene l’innovazione? In quale modo la societá progredisce? Da dove arriva il denaro per finanziare ad esempio l’automotive?

Per avere un’economia del software senza rendere gli utenti schiavi dei programmatori bisogna ripristinare il concetto di brevetti software, cioè che i source code ci sono ed è il fatto che fai le cose in un modo che qualcuno prima di te si è inventato apre il discorso su come rimunerare l’inventore originale… e lì bisogna imparare a giudicare bene cosa è brevettabile e cosa è triviale.

Può suonare difficile, ma l’attuale situazione è molto peggio: dato che ogni software può prima o poi essere riscritto da zero da qualcun altro, i veri vincitori delle guerre del software sono coloro che riescono a creare un monopolio artificiale. Quelli che riescono a stabilire il concetto che per fare shopping si va da Amazon, per cercare robe si va da Google, per socializzare si va dove stanno già tutti gli amici, per prendere un tassì si va da Uber, ed invece dell’hotel si trova abitazione da AirBnB.

Gli esempi che fai non sono software da eseguire sugli apparecchi degli utenti. Non sono nemmeno software da eseguire nella cloud. Eppure sono software dalla quale dipendono vite umane. È un aspetto interessante che finora non ho preso in considerazione.

Scusa, ma qui ti sbagli. Il fatto tecnico che il sorgente viene trasformato in eseguibile ha fatto si che fino agli anni 90 il software proprietario era omnipresente… i sistemi operativi, i videogiochi, i software aziendali… tutto. Semplicemente perché non esisteva nemmeno un compilatore libero affinché rilasciare il codice sorgente fosse di alcuna utilità alla società. I brevetti parevano essere importanti ma in realtà l’aspetto tecnico permetteva già un controllo da parte degli autori molto più efficace.

Mi riferivo ad altro. Quello che voglio dire é che storicamente parlando molto del denaro utilizzato per produrre software oepn-source arriva da aziende produttrici di software proprietario. E che queste aziende usano l’una o l’altra categoria a seconda delle loro valutazioni. Quindi ho il dubbio che in un’economia dove non é piú possibile usare software proprietario la sostenibilitá di software open-source potrebbe non essere possibile. O il software potrebbe diventare l’ancella di qualche altro mercato che lo finanzia, come ad esempio, il mercato dell’elettronica.

L’azienda puó essere anche un singolo autore o una piccola azienda di cinque persone. In ogni caso credo che obbligare un’azienda a rilasciare il codice rimanga scorretto, penso che questo problema possa essere affrontato da altri lati.

La logica conclusione di questo ragionamento e che si dovrebbe vietare agli utenti di usare i social.

Forse non in ogni caso, ma nei casi che mettono in pericolo diritti civili fondamentali e lo fanno in un modo nel quale è difficile comprovare alcun danno. Quante persone hanno partecipato alla scrittura degli script python di Cambridge Analytica che hanno manipolato l’esito del BREXIT? Era una ditta di cinque persone? Forse non esattamente, dato che ci stava di mezzo anche Steve Bannon, ma comunque è impressionante quanto danno un singolo sviluppatore può arrecare se ha la possibilità di applicare il suo codice alle banche dati più potenti del mondo.

Si deve vietare alle persone di usare questi social, i social centralizzati dove ogni pensiero passa per la loro cloud. I social giusti sono quelli distribuiti, funzioni di messaggistica integrate nella Rete stessa, dove non solo il dato che trasmetti ma anche il fatto con chi parli è un’informazione che solo il tuo proprio telefonino conosce. Di questo tratta la PdL #ObCrypto.

Puoi elaborare?

Da come hai scritto, interpreto che dovremmo solo avere sistemi omogenei come le Lisp machines, Oberon o TempleOS. Come puoi immaginare sono abbastanza d’accordo.

In un ecosistema del genere, la disponibilità dei sorgenti sarebbe condizione necessaria al loro funzionamento.

O più semplicemente insegnare a programmare dalla prima elementare.

Perché scorretto?

Si tratta di cambiare business model alla variazione della legislazione vigente. Una cosa che succede continuamente.

O incentivarli fortemente a (e fornirgli gli strumenti per) usare social distribuiti sotto il proprio controllo.

Come era all’inizio.

Credo comunque che potremmo fare di meglio. Ed è estremamente improbabile che ciò accada, perché il software risolve problemi e le persone continuerebbero a volere le soluzioni. Ma in un mondo in cui tutto il software è liberamente modificabile e tutti sono in grado di modificarlo, ci sarebbero più soluzioni che problemi da risolvere.

Non ho mai detto che il mondo verrà salvato dagli hacker. Ho detto che se insegniamo a tutti la programmazione, l’informatica smette di essere uno strumento di potere.

E non ho mai detto che gli hacker siano migliori degli altri. Siamo tutti diversi e non c’è modo di stabilire un ordine: l’insieme Umanità non ha una relazione di ordinamento (e il denaro/profitto sono un pessimo modo di simularla).

Gli hacker non sono in alcun modo migliori o superiori a nessun altro. Dispongono di strumenti culturali potenti che ad altri mancano.

E’ letteralmente come se gli hacker sapessero leggere e scrivere e tutti gli altri no.

Io vorrei che alfabetizzassimo tutti e credo che questa alfabetizzazione, questa democratizzazione dell’informatica, potrebbe essere una grande campagna del Partito Pirata. Sei liberissimo di opporti, come fanno molti altri, e accettare di lasciare le persone nell’analfabetismo informatico, lasciarle succubi inconsapevoli delle persone come noi.

E se questo è quello che vuole il Partito Radicale Pirata, io non ho problemi.

Continuerò a lavorare in questa direzione comunque come ho fatto negli anni scorsi.

Ma se altri come me vogliono un Partito Pirata che sia veramente un partito della conoscenza, non solo come vuoto spot elettorale, io sono qui per aiutare con la mia esperienza e le mie capacità.

Leggo nel programma europeo: “I brevetti non dovrebbero mai essere concessi per “invenzioni” che sono programmi per computer”. Ma se il PP italiano fosse favorevole ai brevetti sul software, ci troveremmo su fronti opposti e lo combatterei con tutti i mezzi leciti. E con me, la maggior parte delle piccole software house e degli sviluppatori indipendenti che vogliono poter creare opere originali senza dover litigare con i detentori di brevetti.

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Certo. Anch’io c’ero quando abbiamo combattuto contro i software patents. È naturale che i pirati, figli delle prime generazioni di attivisti di Rete, abbiano inserito ciò nel loro programma. Ora però mi si apre questa nuova prospettiva di quanto profondo è il pericolo del software chiuso, e mi domando se abbiamo sbagliato… ~15 anni fa.

Prospettive diverse aiutano a raffinare il pensiero. Qui per ora stai a parlare con me, non con il PP italiano. Vediamo come tutelare la tua prospettiva senza che il codice eseguibile continui ad essere lo strumento di controllo della popolazione umana.

Richiediamo per legge la trasparenza di tutti i codici eseguiti direttamente sugli oggetti in possesso alla popolazione, ma non i codici delle “app” che operano in sandbox e hanno permessi d’accesso a dati e protocolli di rete ben regolamentati.

-> In tal caso presumo che la tua piccola software house non ha problemi a sviluppare app che corrono nella sandbox, per questo non c’è alcun obbligo di rilasciare codice e non c’è alcuna necessità di permettere l’applicazione di brevetti software al vostro mercato.

I brevetti software in questo caso servirebbero solo alle ditte che sviluppano software di sistema e/o messaggistica, che sono perciò obbligati a pubblicare il sorgente e non vogliono che ditte concorrenti facciano il copia+incolla. E anche in questa costellazione sarebbe oggetto di molto studio definire i paletti precisi affinché tali brevetti svolgano una funzione costruttiva e non svantaggiosa per la società.

Inserisco una parentesi storica:

Certo non sono a favore di brevettare il mouse o il bottone sulla finestra per elargirla. Mi ricorda quando nel 1994 scrissi il primo servizio di URL shortening della Rete. Wikipedia lo attribuisce a tinyurl nel 2002, ma home.pages.de andò in onda in Febbraio 1994. Nel 1995 qualcuno mi suggerì di brevettare la mia idea. Ora Wikipedia mi spiega che nel 2000 qualcuno quel brevetto lo fece registrare per davvero. Io scelsi di non farlo perché grazie al concetto di previous art nessuno dopo di me avrebbe avuto il diritto di esigere pagamenti per un’idea che non gli appartiene. In retrospettiva forse ho sbagliato, perché se avessi esercitato i miei diritti ad un brevetto del genere avrei potuto forse impedire che i servizi tinyurl, bit.ly e ultimativamente t.co fossero diventati travi portanti del capitalismo della sorveglianza. Purtroppo, quando si ha qualcosa attorno ai vent’anni è facile disperdersi in un immotivato ottimismo verso il progresso tecnologico. Non diedi ascolto ad un vecchio che la sapeva più lunga di me, un certo Howard Rheingold.

Potrebbe anche essere un’opzione definire che i software fondamentali per l’impiego di apparecchi (driver, sistema operativo, network protocol stack) devono comunque essere software liberi ed aderire ad un processo di sviluppo sorvegliato e democratico come avevo linkato nell’altro thread.

Lapsus. Intendevo dire s/tecnica/legale/. Riguardo alla privacy chiedo che l’infrazione sia tecnicamente impossibile, ma per i codici eseguibili non saprei come arrivare a quel punto. Tu hai dato degli spunti. Io penso che sarebbe sufficiente se gli eseguibili siano per legge riproducibili (termine spiegato in vari thread precedenti), così qualsiasi eseguibile non riproducibile è subito sotto accusa. Beh, in effetti si potrebbe impedire tecnicamente e automaticamente la distribuzione di codici non riproducibili. Vai, bella.

O più semplicemente insegnare a programmare dalla prima elementare.

Anche se tutta l’umanità sapesse programmare, non risolverebbe il problema che protende a comprare i PC con Windoze, gli smartphone con una variante Android non libera e si sente attratta da social network che li sorveglia.

Dal 2003, dalla popolarità virale di Friendster in poi, i programmatori liberi della rete discutono come rimpiazzare i social. Nel 2019 abbiamo un Mastodon che funziona solo se dai fiducia a Javascript, non riesce a proteggere in modo ragionevole la privacy dei suoi utenti e probabilmente non riuscirebbe a sopportare il peso del 1% dell’umanità, perché non ha scalabilità pianificata nei suoi protocolli di scambio. E secondo te il problema sono il numero di persone che sanno programmare?

usare social distribuiti sotto il proprio controllo.

Che attualmente non esistono. Ci sono solo i federati che significa che ti fidi di dozzine di altri server perché ci stanno i tuoi amici li. Cioè in pratica per la privacy può essere ancora più deleterio di Facebook. Mentre i social distribuiti sono talmente difficili da realizzare che un approccio da tempo libero non-commerciale non funziona.

Non ho mai detto che il mondo verrà salvato dagli hacker.

A me importa solo che il mondo venga salvato, o piuttosto il genere umano residente qui.

Temo che manchino alcuni fondamenti su cosa significhi produrre un software o brevettare un’invenzione. Per esempio, bisognerebbe sapere che la registrazione di un brevetto sul software non c’entra niente con il codice. Tanto che negli USA si può brevettare un software senza scrivere una sola riga di codice. E pretendere le royalties senza aver mai prodotto alcunché.

Brevettare implica che prima ancora di iniziare a lavorare ci si deve rivolgere a uno studio legale specializzato (altrimenti ci si incasina). E avendo un paio di studi del genere come clienti, posso dire con cognizione di causa che non costa poco.

Mentre il copyright appartiene all’autore dall’istante in cui crea l’opera, il brevetto non ha nulla a che fare con la paternità dell’opera, ma dell’idea. E di idee dietro un software possono essercene diverse. Vuol dire dover controllare minuziosamente, prima di iniziare a lavorare, che non ci siano possibili violazioni di brevetto, e fare subito richiesta di brevetto. Il che carica già un costo notevole sul lavoro, senza aver scritto ancora una sola riga. Non solo, ma se non registri un brevetto e lo fa qualcun altro, anche se la tua opera è precedente, l’invenzione appartiene comunque a quell’altro. Quindi sei costretto a brevettare. E gestire pacchi di brevetti costa molto tempo e molto denaro. Così come le cause per violazione di brevetto.

Ma soprattutto, il software, come i libri o altre opere immateriali, si crea, non si inventa come un oggetto qualsiasi. Ci sono logiche che implementi in fase di produzione. Idee che traduci subito in realtà. Quindi è l’idea stessa di brevettabilità del software che non ha senso, e infatti crea tantissimi problemi, e inibisce la condivisione delle idee. Non si brevetta il lavoro creativo.

Capisco, lynX, che le tue siano idee personali. Ma io che non faccio parte di questo partito sto dicendo a te che invece ne sei parte, che la tua idea di brevettabilità del software, nel mio settore, è decisamente infelice e impopolare.

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Sono d’accordo nel merito: i brevetti non sono una soluzione ai problemi di cui stiamo discutendo.

Si tratta sempre di barriere legali alla condivisione e all’uso della conoscenza e dobbiamo puntare ad abbatterle, non ad estenderle. Anche perché l’aumento della complessità legale inibirebbe qualsiasi attività di sviluppo indipendente, come ad esempio il software libero.

Tuttavia, per quanto io non sia d’accordo, apprezzo che @lynX stia cercando soluzioni a problemi reali.

Non biasimiamo un’idea solo perché contro intuitiva o minoritaria, ma critichiamola costruttivamente sulla base di considerazioni logiche e osservazioni oggettive (come quelle che hai fatto prima di questa frase).

Lasciamo che chi porta in buona fede le proprie competenze e le proprie idee possa esprimerle serenamente senza paura di essere biasimato. Se ci ascoltiamo l’un l’altro con attenzione, se discutiamo con apertura, rispondendo alle domande nel merito e cercando di capire cosa c’è di buono nell’apporto dell’interlocutore, magari pessime idee ne ispireranno di buone, e le buone di ottime. :wink:

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Va bene, ma nel post precedente ho spiegato come il tuo settore non sarebbe affetto. Io sto parlando di società che sviluppano sistemi operativi.

Grazie, ogni tanto due parole di conforto fanno bene. :smile:

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Certamente. Ma la mia ultima nota era solo un riferimento al dualismo che era emerso in precedenza tra posizione personale/partitica.

Per un osservatore esterno può essere difficile capire quando un’opinione è personale, minoritaria o maggioritaria. Per cui se fai notare un’inconguenza rispetto al programma europeo e ricevi una risposta del tipo “sì ma ora stai parlando con me”, può venirti da dire: sì, ma io stavo ponendo la questione a un membro del partito. Era solo un mettere i famigerati puntini sulle i.

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Per questo abbiamo certe regole nelle linee guida della convivenza, ma non le stiamo applicando… sigh…