Dicotomia tra software proprietario e software libero

Un tema che é venuto fuori dal ragionamento sulle tecnologie informatiche é il rapporto tra software proprietario e software libero.

Un primo ragionamento tende ad affermare che il libero accesso alla conoscenza deve essere coniugato in termini di obbligo di pubblicazione del codice sorgente da parte di tutti i produttori di software.

Questo solleva alcuni elementi:

La genesi del copyright e dei brevetti, fonda il suo ragionamento sulla necessitá dei produttori di conoscenza di avere un reddito, una motivazione e una convenienza economica nel produrre innovazioni tecnologiche. Che per loro natura, hanno una elevata probabilitá di fallire e quindi spesso necessitano di ingenti investimenti, anche perché la scienza é piena di scoperte piú o meno casuali dove la tal scoperta é poi stata usata in un campo completamente diverso da quello per il quale era stata progettata.

Quindi la mia prima domanda é: si dovrebbe lasciare ai proprietari del software la libertá di scegliere sotto quale licenza rilasciarlo o si dovrebbero obbligare i proprietari a rilasciare i sorgenti in ogni caso?

Un cambiamento rispetto agli anni 90 e primo decennio del 2000 L’avvento dell’open-source ha provocato il tramonto del mercato della vendita di software inteso come pacchetti da installare in una macchina. I guadagni si sono abbassati e il mercato ha cominciato a cercare nuovi paradigmi e nuove soluzioni, il personal computer ha ceduto il passo a sistemi meno potenti e meno costosi che si appoggiano per la potenza di elaborazione a mainframe remoti. E’ nato il cloud e tutti i concetti legati al mondo “As a Service”.

Il mondo “As-a-Service” sostiene economicamente il mondo open-source perché ha un’oggettiva convenienza economica nel farlo.

E’ avvenuta una separazione tra le libertá che definiscono il software come libero e il servizio commerciale che il software puó offrire. Cioé il software open-source puó venire usato in remoto offrendo un servizio commerciale senza infrangere alcuna licenza.

Questo é un dato che si deve investigare e del quale si deve tenere conto, perché il paradigma é cambiato.

Chi paga le bollette? Da dove viene l’innovazione? In quale modo la societá progredisce? Da dove arriva il denaro per finanziare ad esempio l’automotive? In ultima istanza, il denaro deve venire dal plus-valore del lavoro. Quindi dalle aziende.

Non é un segreto che l’enorme progresso dell’open-source arriva dalla sua capacitá di infilarsi nei meccanismi aziendali non solo per via della fatto che é direttamente modificabile, ma anche perché fornisce una base di conoscenza comune che aumenta la disponibilitá di lavoratori in un contesto talmente specializzato da renderli di difficile reperimento. Per esempio, é molto piú semplice trovare gente che conosce Ansible, piuttosto che qualche sistema d’automazione proprietario prodotto da IBM. Per contro, dobbiamo anche dire che é veramente raro che il software open-source fornisca “qualcosa che prima non c’era”, storicamente il mondo open-source é molto piú bravo a produrre cloni di qualcosa che giá esiste. Cioé non produce innovazione, stabilizza un concetto e lo rende parte di un modello culturale condiviso dall’intera comunitá informatica, anche quella proprietaria, che spesso se ne avvantaggia per produrre i passi successivi.

Per riassumere: L’open-source é spesso finanziato dal mondo proprietario L’open-source produce meno innovazione del mondo proprietario, ma la produce.

Esiste codice che non dovrebbe essere letto? Esistono situazioni particolari dove sarebbe meglio non rendere il codice pubblico? Per esempio, un terrorista potrebbe avvantaggiarsi di un bug nella sicurezza delle torri di controllo aeree che non é ancora stato risolto? O anche il software di atterraggio di un aereo? Le ho buttate cosí, ma immagino che si possa costruire una riflessione anche su questo. Ovviamente non pretendo di avere l’ultima parola.

Dicotomia e complementarietá L’open-source é il codice proprietario sono costretti a convivere? Mi spiego meglio, esistono studi sociali che sostengono che il capitalismo non potesse sopravvivere senza il comunismo, perché erano due lati dello stesso paradigma sociale, nel momento in cui é crollato uno, l’altro gli é caduto addosso perché non era in grado di reggersi, non é un caso che Marx fonda la sua teoria partendo dalle logiche conseguenze che si generano in un sistema capitalista.

Quello che io ipotizzo, é che l’open-source e il software proprietario siano due lati della stessa medaglia entrambi necessari alla societá dell’informazione per fare il suo percorso, cioé il paradigma della societá dell’informazione si poggia su queste due gambe che si mischiano e si influenzano continuamente a velocitá che sarebbero ingestibili da un sistema legislativo.

Quello che possiamo fare é monitorare e lavorare sulla dicotomia per difendere i diritti dell’individuo e lavorare sulle storture che si creano strada facendo.

Io sono per la libertà di scelta, in nessun caso imporrei ad un’ azienda di rilasciare il proprio codice. Se non agiamo in regime di monopolio tendo a pensare che ci sarà anche una versione analoga del software con i sorgenti rilasciati. Riguardo alla segretezza del codice sono portato a pensare che i codici open siano più sicuri perché così come i terroristi possono individuare un buco di sicurezza lo possono fare tutti gli altri (la stragrande maggioranza) e in tal modo porvi rimedio. Sulla questione complementarietà non capisco invece il ragionamento capitalismo - comunismo. A me sembra che la storia ci abbia piuttosto mostrato come il primo abbia tratto vantaggio dalla crisi del secondo.

In realtà non ci sarebbe bisogno di nessun obbligo: basterebbe ripristinare il divieto di mettere la proprietà intellettuale sui software. Cosa che sarebbe facilmente motivabile con un principio di mercato: nel momento in cui acquisto qualcosa (es. un tablet) divento proprietario di quel dispositivo, ergo ho il diritto di usarlo come voglio io. La proprietà intellettuale (PI), sul sw come sull’hw, di fatto limita questo mio diritto, arrivando ad una situazione in cui ho pagato per non avere completamente un bene in cambio.

Questa è la storiella raccontata dagli editori. La Storia dimostra che la conoscenza (in senso lato, cioè includendoci arte, letteratura, scienza) è sempre stata prodotta, per le ragioni più svariate. Ai tempi di Omero e di Dante non esisteva il concetto di PI, eppure i poemi omerici e la Divina Commedia son state scritte uguale.

Certo. Ma il bug può esistere anche nel sw proprietaio. Se il sw è Open Source ci sta che venga fixato prima, visto che il numero di sviluppatori è più alto di quello che può stipendiare una singola azienda.

Quello che ipotizzo io, invece, è che il sw Open Source sia un altro nome per indicare qualcosa che un tempo si chiamava solo “software”, prima che gli Stati rendessero legalmente possibile la brevettazione. E’ la stessa cosa che sta accadendo in altri ambiti: oggi esistono pure i semi Open Source, che vanno chiamati così solo per differenziarli da quelli brevettati dalle varie Monsanto.

2 Mi Piace

Riporto per completezza la parte rilevante della mia risposta al thread cui @ale fa riferimento in OP.


Il Software è Conoscenza

Per una volta è semplice. :smile: Il Manifesto del Partito Pirata recita: “Vogliamo garantire l’accesso libero alla conoscenza”.

Il software è conoscenza. Alla pari di un film, di un romanzo o di una canzone.

Dunque il Partito Pirata vuole garantire l’accesso libero al software.

Questo significa che ciò che diciamo per il software non può essere in contraddizione con ciò che diciamo sui DVD o il DRM. Sulla Baia dei Pirati non trovi solo film e musica, ma anche software. Non c’è alcuna differenza. Il codice è dato, e il dato è codice. Entrambi rappresentano conoscenza da liberare.

Su questo non possiamo avere dubbi.

Ne consegue che, come indirizzo politico e giurisprudenziale, i Pirati vogliono garantire a tutti l’accesso al software e ai relativi sorgenti. E’ sempre stato così, con gli hacker impegnati sul campo a recuperare Conoscenza sottratta dall’industria. Non possiamo rinnegare così tanto le nostre radici o veramente non possiamo più definirci Pirati.

E’ la Conoscenza il bene comune che vogliamo arricchire e tutelare. Per servire la Curiosità dell’Umanità intera.

E questa conoscenza si manifesta anche nel software che DEVE essere libero.

Il software proprietario, tutelato dal brevetto, dal copyright o dal segreto industriale, è un furto. Una grave sottrazione al bene comune della Conoscenza dell’Umanità. Punire questa sottrazione non è proibizionismo, più di quanto non lo sia punire un furto in un Museo pubblico.

Questo deve essere chiaro, anche se decidessimo di non punire tale furto ma di limitarci generosamente a recuperare la refurtiva e restituirla alla società cui appartiene. A questo scopo, dovremo sfruttare la competenza e l’intelligenza di avvocati come Carlo Piana e Marco Ciurcina per progettare Leggi finalizzate a interrompere questa continua sottrazione di Conoscenza all’Umanità

Gestire i danni subiti

Il software proprietario esiste. Al momento è tutelato da diversi regimi legislativi che antepongono il profitto di pochi alla conoscenza di tutti.

Non è vero che “la Conoscenza è Potere”: è l’Ignoranza ad essere debolezza.

Il software proprietario sottrae libertà a tutti gli esseri umani, anche a quelli che usano il software libero. Dunque per liberare le persone, dobbiamo recuperare il software proprietario.

Non si tratta di vietare il copyright o i brevetti, si tratta di abrogare le leggi che li istituiscono. Non si tratta di vietare il segreto industriale, ma di tutelare il posto di lavoro di coloro che lo violano. Non in un giorno o in una campagna elettorale, ma lungo tutta l’esistenza del nostro partito. Perché liberare la Conoscenza e servire la Curiosità, sono le ragioni per cui il Partito Pirata esiste.

Per contro, fintanto che il software proprietario esiste, laddove non esistono alternative libere, questo non ci deve impedire di usarlo. E’ il minimo che possiamo fare, visto che ci viene sottratta la possibilità di studiarlo e modificarlo.

E non ha alcun senso biasimare chi usa, per lavoro, per svago o per qualsiasi altro scopo, software proprietario.

Dobbiamo però minimizzare il danno, educando le persone a riconoscere i rischi e le alternative, nonché creando tali alternative noi stessi. Ed insegnando a crearle.

Questo vale per tutti i sistemi di privatizzazione della Conoscenza, sia che si tratti di software cui è stato sottratto il sorgente prima della distribuzione sia che si tratti di Software as a Service di cui all’utente è stata persino sottratta la propria copia personale attraverso il controllo remoto del suo browser web.

Dunque dobbiamo essere pragmatici ma con le idee chiare.

Usare o persino sviluppare per mestiere software proprietario non è peccato. Non deve essere una colpa da cui giustificarsi.

Sostenerlo sarebbe biasimare le vittime di un furto per essersi fatte derubare.

Ma i Pirati vogliono che tutto il software e tutto l’hardware e tutta la conoscenza siano liberi.

Il nostro Tesoro è la Conoscenza dell’Umanità intera. E la Curiosità è la nostra nave.

1 Mi Piace

La differenza tra software proprietario, libero o open source è nelle licenze, tutte ugualmente riconosciute perché basate sulle stesse leggi del copyright.

Il copyright è cosa buona, perché garantisce all’autore di un’opera immateriale dei diritti sulla sua opera. Se scrivi un libro, hai di default tutti i diritti sulla tua opera, anche se non le associ alcuna licenza. Perché quell’opera, anche se ne produci miliardi di copie, rimane tua.

Il successo commerciale o il progresso tecnologico, in generale, non dipendono dalla licenza. Possono cambiare i modelli di sviluppo o di vendita, come ci ha descritto Eric Raymond nel suo vecchio saggio La cattedrale e il bazaar. Ma l’efficacia di questi modelli varia caso per caso.

Quanto detto vale anche per la sicurezza. Il baco Heartbleed di OpenSSL ci ha ricordato una dura verità: non basta che il software sia open perché sia considerato sicuro. Se cadiamo in questo errore cognitivo, finisce che inviamo dati cifrati a go go, sicuri che nessuno possa intercettarli, scoprendo dopo anni che le cose in realtà stanno diversamente.

I brevetti sul software, invece, sono il male. Perché non tutelano le opere originali, ma le idee. Ma non può esserci un copyright sulle idee.

1 Mi Piace

In questo momento storico hai ragione: in quanto fondamento del copyleft, il copyright è l’unico fragile strumento di una persona generosa e creativa per impedire che il suo dono alla collettività venga sottratto alla comunità stessa e privatizzato.

Tuttavia viene anche usato per sottrarre all’autore questa possibilità: le aziende per cui uno sviluppatore lavora ne acquisiscono il copyright automaticamente. Analogamente l’editore trattiene la maggior parte dei benefici economici.

I problemi della “Proprietà Intellettuale” sono profondi e strutturali. Copyright, brevetti e segreto industriale sono problemi da risolvere.

Dobbiamo iniziare ad cercare un nuovo modello che non si basi su una fragile idea di proprietà applicata a non escludibili come le informazioni. Perché ricordiamoci che il software è una rappresentazione di idee.

Il codice è dato, esattamente come il dato personale. Tanto da essere usato per identificare i programmatori che lo hanno scritto.

Dunque probabilmente dovremo iniziare a riflettere su una normativa che unifichi e regolamenti insieme tutte le espressioni di informazioni prodotte o interpretabili da una mente umana.

Il software non si può possedere. Si può possedere solo il supporto fisico su cui è rappresentato. Dunque parlare di “proprietario” è sbagliato, per quanto sia un errore diffuso.

Comunque bisognerebbe semplicemente abrogare le leggi che permettono la sottrazione all’Umanità intera della Conoscenza encodata nel sorgente del software.

Queste leggi non riconoscono un diritto ma istituiscono un privilegio. Non dimentichiamo che «La cultura del privilegio tende, per sua natura, a normalizzare la disuguaglianza, cancellandone l’origine storica e facendola percepire come naturale, scontata, ineliminabile»

Ci sono diversi modelli di business che non necessitano di software proprietario o SaaS.

Comunque, la mia risposta preferita è che il software dovrebbe essere finanziato da tasse sul suo utilizzo. Invece che pagare un abbonamento a Office365 paghi le tasse e con quelle tasse viene sviluppato OpenOffice365 che puoi installarti e modificarti autonomamente nella tua piccola o grande azienda.

Se stai parlando di self-driving car: fidati, è meglio non finanziarle.

In generale però l’hardware è inutile senza software: se non ci fossero più ditte di software proprietario, chi produce hardware sarebbe costretto a finanziare lo sviluppo di software libero.

L’innovazione comunque non avviene quasi mai nell’industria. Come ha sottolineato @Exekias, quasi sempre l’industria applica e diffonde innovazioni ideate altrove. I rari casi in cui innova veramente sono naturalmente più noti perché oggetto di vaste campagne di marketing. E molto spesso l’innovazione è volta ad abbattere (o scaricare sulla collettività) i costi, più che a migliorare il servizio.

E tutto questo vale, seppur in misura ridotta, anche per l’Open Source. L’Open Source talvolta innova, ma tendenzialmente a vantaggio esclusivo di certi stakeholder. Per esempio Chrome è un browser continuamente innovativo, ma le innovazioni che produce e diffonde danneggiano l’utente e la società, fruttando la loro ignoranza in materia.

Il software libero, invece, essendo un atto di Curiosità, è tendenzialmente più innovativo. Naturalmente l’innovazione non è sempre tecnica. I limiti tecnici del progetto GNU dipendono dal fatto che sia nato come clone libero di UNIX. L’innovazione stava nella Libertà, non nel design del sistema operativo. E come spesso accade, questo limite di GNU ha influenzato l’informatica libera per decenni. Per contro, grazie ad esso, oggi GNU/Linux è un sistema libero usabile (o quasi :joy:).

No, in tutti i casi, se è possibile accedere e modificare il sorgente è possibile ridurre i rischi.

Naturalmente la retorica del “La Cattedrale e il Bazar” è appunto vuota retorica, come sottolineava @daviderix nel suo intervento: la disponibilità del sorgente non implica affatto che questo venga studiato e debuggato. Fintanto che la maggioranza delle persone non sa programmare e debuggare la probabilità che questo avvenga è infima, perché i programmatori professionisti non hanno il tempo di mettersi a studiare un sorgente di milioni di righe di codice.

L’unico modo per garantire qualità è pagare review indipendenti. Ovvero avere un Ministero per l’Informatica che si occupa di rileggere e debuggare ogni sorgente delle applicazioni utilizzate sul territorio italiano.

No.

O meglio: sì nel sistema legale attuale. Ma modificando le leggi, potremmo restituire il software proprietario alla società intera.

Non vedo perché la società dell’informazione debba aver bisogno che certi software siano proprietari. Sarebbe come dire che il giornalismo ha bisogno che certe notizie rimangano segrete mentre vengono copiate su tutti i giornali di tutto il mondo.

Il software originariamente era tutto libero. Può e deve tornare ad esserlo.


Come tutte le grandi rivoluzioni, quella per la liberazione della Conoscenza non sarà facile. Insegnare Informatica a tutti vuole dire cambiarla profondamente, farla progredire rapidamente. Vuol dire incontrare resistenze e paure, scontentare potenti, scardinare abitudini e credenze assodate.

L’alternativa è un mondo in cui Conoscenza ed Informatica sono usate da pochi per schiacciare tutti.

L’unico possibile antidoto è la nostra Curiosità.

Il copyleft é un hack del concetto di copyright, é un modo originale di interpretare il diritto d’autore: “Se é vero che sono il proprietario di quello che ho scritto, allora posso anche decidere di concedere tutta questa serie di libertá”. Attenzione: il copyleft si fonda sul concetto di proprietá, se non c’é proprietá, non c’é dono, non c’é altruismo né generositá.

Non vedo motivazioni per le quali non si possa essere proprietari di un software. Se una persona contribuisce alla conoscenza generale, questo gli deve essere riconosciuto e non solo con una pacca sulla spalla, ma con uno stipendio adeguato. Se “tizio” ha scritto il codice per farti navigare mentre vai al mare, io credo che le sue ore lavoro debbano valere qualcosa.

Concordo comunque che tutto il meccanismo dei brevetti e della proprietá intellettuale é arrivato a livelli assurdi e andrebbe rivisto.

Non mi é chiaro come vorresti finanziare il software “da tasse sul suo utilizzo”, se il software é gratuito come puoi tassarlo? Quanto dovrei pagare per il software open-source che sto utilizzando mentre ti scrivo?

Inoltre se anche volessimo pagare un “canone”, in stile rai, (sai che entusiasmo da parte di chi ti vota), si genererebbe un sistema burocratico per la gestione di questo denaro e sono certo che sarebbe iniquo e non stimolerebbe l’innovazione. Oltre al fatto che sono contrario alla burocrazia a prescindere. Diciamo che sono per la lean bureaucracy (ammesso che esista).

Era solo un esempio, ma mi riferisco a tutti i possibili software che possono essere montati in un’automobile, quindi anche self-driving car.

Oppure potrebbero creare una divisione che scrive software proprietario per il loro prodotti.

Per quanto riguarda l’innovazione, io non ho detto dove avviene, ho detto chi la paga. La produzione della ricchezza nella nostra societá avviene nelle aziende, che sono le uniche che, in ultima istanza, possono finanziare l’innovazione. Quando una scoperta o una conoscenza mostra elementi pronti per il mercato, e c’é la possibilitá di ingegnerizzarla, l’industria si occupa di farlo.

L’open-source o software libero é solo software scritto con una licenza diversa, non é per forza un atto di curiositá, puó esserlo, ma puó essere (e molto spesso lo é) un progetto che ha un business plan, che ha dipendenti, e che sa come reperire il denaro per auto-sostenersi e spesso anche per guadagnare molto.

Apro una parentesi sui due concetti, visto che insisti a tracciarne la differenza. Tecnicamente, non c’é nessuna differenza tra software libero e open-source, ogni software che é libero secondo la definizione di stallman é anche open-source e ogni software che é open-source é anche libero. La differenza consiste nel focus, che nel caso di Stallman é filosofico, nel caso di Raymond e Perens é pratico. Cioé Stallman definisce il software libero in funzione delle libertá che ne derivano, Raymond e Perens definiscono l’open-source in funzione delle caratteristiche che deve avere la sua licenza per esserlo. Infatti, l’open-source initiative si occupa di tracciare le licenze che corrispondono all’open-source definition e cercare di definire un software come open-source ma non come software libero é una mera operazione di scuola, tralaltro, destinata a fallire. Ognuno prenda quella che gli piace, ma non dividiamo il capello in quattro.

Sulla questione di “esiste codice che non dovrebbe essere letto”, concordo con gli appunti che mi sono stati fatti da piú parti, ma volendo continuare a fare l’avvocato del diavolo… Credo che comunque la scelta dovrebbe essere in capo all’azienda, perché certe parti di codice potrebbero essere il valore aggiunto che permette a quell’azienda di stare sul mercato e magari di vincere la competizione nel suo settore, quindi deve essere la compagnia a decidere quando rilasciare il codice se questo é ormai una base della nuova societá. Per esempio, Google non ha mai rilasciato il codice di BigTable, ma rilasció dei papers che ne spiegavano le caratteristiche e hanno fornito la base per la nascita di HBase e di Hadoop. Kubernetes invece é nato da Borg, dopo che Google lo usava ormai da anni e aveva esaurito il vantaggio che Google riteneva di avere.

Sulla questione invece, di obbligare il rilascio di codice di software proprietario, preferisco un meccanismo competitivo. Dove viene prodotto software open-source che fornisce le stesse funzionalitá del software proprietario. Quello sul quale invece si dovrebbe lavorare é sugli standard. Penso per esempio al caso di Samba dove MS cercava di osteggiarla fornendo informazioni incomplete sulle caratteristiche del protocollo SMB.

Perché è più o meno come pretendere di essere proprietari di uno spettacolo pirotecnico. Gli economisti definiscono “bene comune” qualcosa che abbia le seguenti 2 caratteristiche:

  1. impossibilità (o estrema difficoltà) di escludere qualcuno dalla fruizione
  2. non deperibilità del bene all’aumentare dei fruitori

Lo spettacolo pirotecnico soddisfa questi 2 requisiti. Siccome i fuochi d’artificio esplodono in cielo, e chiunque si trovi nelle vicinanze può guardarli da qualsiasi luogo a gratis, ha poco senso pretendere che lo Stato si adoperi affinché solo chi paga un biglietto possa assistervi. In teoria il Comune potrebbe sguinzagliare una muta di vigili urbani che multino i guardoni “abusivi”, ma mettere in piedi tutto ciò costerebbe talmente tanto e avrebbe dei margini di fallimento talmente grandi che non vale la pena.

Il software soddisfa appieno il requisito 2, e quanto all’1 sappiamo bene quanto crackare i sw proprietari sia lungi dall’essere impossibile.

Deve essergli riconosciuto da chi? Dallo Stato? Perché se il principio è questo, rendiamoci conto che pressoché chiunque potrebbe reclamare uno stipendio pubblico asserendo di “contribuire alla conoscenza generale”. Volendo posso mettermi a fare tagli a caso su una tela, spacciarli per opere d’arte contemporanea e reclamare uno stipendio perché sto “contribuendo alla conoscenza” (i fan dell’UBI sostengono esattamente questa tesi).

Nel caso del software, il problema è molto meno marcato, secondo me: i sw non dovrebbero essere brevettabili, ma chi li scrive non dovrebbe neanche essere obbligato a renderli pubblici (sarebbe impossibile attuare quest’obbligo, esattamente come impedire alla gente di guardare i fuochi d’artificio nell’esempio di sopra: che si fa, si piazza una telecamera su ogni programmatore così appena scrive un sw nuovo lo si obbliga allo sharing?). Questo risponde alla domanda della retribuzione: se scrivi un sw che fornisce un servizio che nessun altro eroga (o almeno non con altrettanta efficacia/velocità/precisione), avrai un vantaggio competitivo sulla concorrenza. Nulla ti vieta di andare da un’azienda (se si tratta di B2B) o rivolgerti al pubblico (se è B2C) e dire “Hey, hai il problema X? Io posso risolvertelo, grazie al mio innovativo software che ho scritto”. Se poi qualcuno ti dice “Ah, buono: sai cosa, dammi direttamente il sw, così faccio da solo e non ti pago”, tu gli rispondi “Col cazzo” e la cosa finisce lì. [Diverso è il discorso di sw che gira su un dispositivo che hai acquistato: in quel caso c’è il problema che dicevo qualche post sopra, cioè che se il sw non è libero tu acquirente di fatto sei impossibilitato ad utilizzare appieno il dispositivo].

Il principio è che lo Stato non può né impedire la generosità né vietarla. Attualmente, nel mondo del software, la vieta, attraverso le leggi sulla PI: se acquisto regolarmente una copia di Office e voglio condividerla gratuitamente con tutto il condominio, non posso farlo. Eppure non vieta di dare passaggi in auto a degli sconosciuti senza farsi dare un contributo per il carburante, o di mettersi a tinteggiare a gratis le pareti del vicino di casa.

Diciamo che tra il concetto di software libero, così come è inteso dalla Free Software Foundation, e il concetto di open source così come è inteso dalla Open Source Initiative, esistono delle differenze essenzialmente etiche e filosofiche, ma possono esserci anche dei risvolti pratici.

Un esempio, che riporta molto bene Stallman nel suo articolo Perché l’Open Source manca l’obiettivo del Software Libero, è la maggior permissività della definizione di open source nei confronti dei dispositivi tiranni, quei dispositivi cioè che non permettono l’esecuzione di codice personalizzato.

Viste le differenze di opinione sulla coesistenza di software libero e proprietario, pongo un piccolo spunto di riflessione:

Liquid Feedback è un software sviluppato in origine da alcuni membri del PP tedesco (poi usciti dal partito) e rilasciato con licenza MIT, una licenza libera ma senza copyleft, perché permette il riutilizzo nel software proprietario con il solo obbligo di distribuzione della licenza: il software può essere modificato e distribuito con licenza chiusa anche senza codice sorgente.

Come si pone il PP rispetto a questa scelta?

Quindi per esempio Collodi non é proprietario di Pinocchio, mi hai fatto rendere conto che sono stato impreciso nella definizione, non mi riferivo alla proprietá nel senso che ne posso disporre, ma nel senso che ne sono autore e ho speso delle energie per costruire quel prodotto e quindi voglio che mi sia riconosciuto.

Sulla questione del software acquistato, con o senza hardware, condivido le tue posizioni.

Trovo che l’esempio di office vs automobile non calzi bene, non é possibile duplicare le automobili con un milionesimo del costo di produzione. Quindi penso che la ditta debba essere libera di scegliere in quale modo intende sostenere il costo di produzione.

Accetto l’idea che il free software la metta in termini etici, mentre l’open-source sia piú pragmatico. Quindi dal punto di vista di un’associazione che propone l’utilizzo del software in termini etici é migliore la definizione della FSF. Peró ti faccio notare che il software non é etico. Il software esegue quello che gli viene chiesto, é possibile usare postgres per schedare tutti gli armeni in turchia, eseguire una eticissima SELECT e mandarli tutti all’olocausto. Quindi mi chiedo se é veramente possibile teorizzare la libertá attraverso l’uso di free software.

Inoltre secondo il ragionamento che Stallman fa nel suo articolo, si conclude che GPL-2 é open-source e GPL-3 é free software. Se non fosse che le ha scritte tutte e due lui.

Mi piace il tuo appunto di Liquid Feedback, dal mio punto di vista, non é un problema grave, ma immagino che per i piú integralisti sia un bell’argomento. Su questa cosa ho un giudizio sospeso.

Infatti la questione etica non è sul software come prodotto ma sulla licenza del software. L’equivoco sulle GPL dipende dal fatto che la versione 3 include accorgimenti che aggiornano la licenza in funzione di nuove tecnologie e problematiche (es: i brevetti) che non c’erano durante la stesura della versione 2. La critica di Stallman riguarda il fatto che alcune licenze opern source non ne tengano conto.

Su questo la legge (italiana ma non solo, credo) distingue i diritti in vari generi:

Quello a rivendicare la paternità dell’opera un diritto personale, ed è inalienabile. Invece i diritti di tipo patrimoniale possono essere ceduti in cambio di una percentuale: è quello che avviene quando uno scrittore stipula un contratto con una casa editrice. Quest’ultima diventa titolare unica dei diritti patrimoniali su una certa opera, e corrisponde una percentuale (nella migliore delle ipotesi un 10%) sulle vendite all’autore.

In un mondo senza copyright, gli autori potrebbero vendere le opere a più di una casa editrice. Così avresti uno stesso libro che magari costa 20€ in edizione Mondadori, 10€ in versione ultra-tascabile scritto minuscolo edizione Sperling & Kupfer. Del resto, è quello che già avviene oggi con i classici.

1 Mi Piace

Il copyright non impedisce in alcun modo di vendere un’opera a più editori. Quella è una questione contrattuale tra autore ed editore, un accordo tra le parti.

Il copyright dà agli autori dei diritti. Cosa farci con quei diritti dipende da ogni singolo autore.

Tra l’altro, non è inusuale cedere i diritti in modo non esclusivo. Succede ogni volta che si pubblica una foto su Facebook. Molti libri possono essere acquistati da più case editrici. Think Python, per esempio, può essere preso a 25 euro da O’REilly o da Green Tea Press con offerta libera (o anche a gratis). Udemy prevede la possibilità di vendere i propri corsi anche separatamente dalla piattaforma.

Tutto vero, ma parlavo delle case editrici “tradizionali” italiche. In genere i contratti che propongono prevedono la cessione dei diritti in modo esclusivo. E diciamocelo: se non ti sta bene non pubblichi (in teoria puoi ricorrere al self publishing, ma per ora é un fenomeno che qualcuno ha ribattezzato “vanity press” per motivi facilmente intuibili)

Scusami @ale, ma non è esatto e purtroppo questa confusione molto diffusa partecipa al processo di marginalizzazione del software libero e degli hacker a vantaggio del open source e del mercato.

Il software libero è software sviluppato da persone che adottano l’etica hacker, che perseguono la propria curiosità (sia essa tecnica, politica o sociale), ma tale sviluppo è un atto politico ed è tanto pragmatico quanto è pragmatico il software open source o quello proprietario.

Il software open source non è più “pragmatico” è semplicemente amorale: sollevato dai valori dell’etica hacker e dai conseguenti obiettivi politici e sociali, il software open source diventa un potente strumento di marketing.

Marketing personale (far curriculum) o aziendale (entrare in una nicchia di mercato, per esempio).

Il marketing del software open source è assolutamente legittimo ed il software open source è (quasi sempre) compatibile con il software libero. Il problema si pone quando i due vengono confusi, per esempio nel termine FLOSS.

Anzitutto perché nel mix, i valori (reali solo in una parte) si diluiscono: l’OSS se ne veste senza praticarli, il FS li pratica ma si trova per questo in svantaggio nei confronti dell’OSS che ottiene finanziamenti molto maggiori. Inoltre stabilendo ed espandendo l’egemonia culturale del capitalismo statunitense, marginalizza gli hacker che si rifiutano di sottostare alle regole di condotta di un ufficio statunitense quando donano le proprie competenze al mondo come volontari.

Ma la differenza fra i due è soprattutto pratica: la governance di un progetto OSS è profondamente diversa dalla governance di un software libero. E se non le conosci e distingui, prima o poi incontrerai sorprese spiacevoli.

[quote=“ale, post:7, topic:2738”] Non mi é chiaro come vorresti finanziare il software “da tasse sul suo utilizzo”, se il software é gratuito come puoi tassarlo? [/quote]

Questo è semplice: visto che il software è uno strumento produttivo, andrebbe tassato il suo uso aziendale.

In altri termini: i privati cittadini dovrebbero avere accesso gratuito ai sorgenti di tutto il software che utilizzano, in qualsiasi condizione, sia direttamente che attraverso un proxy o “as a Service”. Le aziende che usano software a qualsiasi titolo, dovrebbero dichiararlo e pagare una tassa per ciascuno di essi.

Nota che il software sarebbe tutto libero: le aziende non pagherebbero più alcun software, solo le tasse sullo stesso.

Per finanziare lo sviluppo, si ridistribuirebbe quelle tasse agli sviluppatori, in base alla diffusione e fino ad un tetto massimo. Cioè visto che Linux è più usato di iOS, gli sviluppatori di Linux ricevono più soldi di quelli di iOS, ma entro un tetto massimo (e.g. max 100.000€ annui a sviluppatore, ma sulla definizione del quanto precisamente non ho mai ragionato). Tutto quello che avanza finisce in ricerca e sviluppo: gli sviluppatori di sistemi operativi nuovi, le università etc…

Quanto paghi il software proprietario equivalente.

Ma non tu, solo le aziende che lo usano pagherebbero questa tassa. I cittadini no.

Un buon politico non pensa alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni. :wink:

No, se abroghi la possibilità di non distribuire i sorgenti e vietarne la modifica, il software proprietario cessa di esistere. E il mondo non cambierebbe poi così tanto, per la verità.

Il principio dovrebbe essere semplice: se uso un software, lo posso leggere, modificare e ridistribuire.

Anche questo è un falso mito della propaganda capitalista.

La stragrande maggioranza delle innovazioni vere della Silicon Valley sono di origine militare. Ovvero sono finanziate dal Governo degli Stati Uniti d’America. Governo che controlla di fatto tutte le aziende che recitano da campioni della libertà del mercato fuori dagli Stati Uniti. Una buona lettura in proposito è stata Limes 10/2018. Il numero titolato “La Rete a stelle e strisce” spiega bene alcune dinamiche economiche della Silicon Valley che sfuggivano anche a me. Una breve presentazione del numero è disponibile su YouTube

torify youtube-dl https://youtu.be/-mrZiZZqAcQ

Esistono eccezioni di vera innovazione aziendale. Per esempio la Programma 101 è stato il primo desktop computer programmabile del pianeta terra ed è stato inventato ad Ivrea. In piena guerra fredda fu definito “un neo da estirpare in un’azienda per il resto solida” (la Olivetti). Vendette migliaia di esemplari, ma solo negli Stati Uniti che la copiarono.

Pensa come sarebbe il mondo oggi se avessimo avuto politici competenti in informatica allora. Invece di Google e Microsoft, avremmo una miriade di aziende italiane ed europee nate sul modello illuminato di Olivetti.

Dipende. Alcuni software sono neutrali, altri per nulla. :wink:

Per il resto @Exekias ha esposto praticamente tutto ciò che avrei detto.

Aggiungo solo che la libertà del software dipende anzitutto dall’accesso dell’utente al sorgente e dai diritti che questo ottiene o trasferisce attraverso l’uso e la distribuzione dello stesso.

Sono d’accordo.

Solo coloro che li usano e coloro i cui dati vengono trattati da un software dovrebbero avere il diritto di accedere al suo sorgente e modificarlo, eseguirlo e ridistribuirlo a loro piacimento.

Ma se scrivo un software per me, che uso solo io, nessuno può impedirmi di tenerlo segreto o impormi di pubblicarlo.

Certo hai ragione tu. Il mondo verrá salvato dagli Hacker, che sono migliori degli altri perché lo studio dell’informatica gli permette di diventare esseri superiori, avranno stipendi statali ottenuti grazie alla tassazione sulle aziende che usano software libero.

Contro-esempio: le sedie esistono. Faccio il confronto del software con la costruzione di un oggetto fisico, una sedia. Qualcuno può inventarsi una sedia particolarmente bella, che la gente ama comprare. Qualcun altro vede come è fatta la sedia e la può copiare. Il brevetto gli impedisce di lucrare sulla genialità del autore originale. Se per le sedie i brevetti funzionano, il problema in ambito software si è creato solo data la particolarità che il sorgente si trasforma in eseguibile. Possiamo decidere che questa particolarità tecnica è una stortura del mercato e che il software deve comportarsi come le sedie, ed essere studiabile — sempre e comunque.

Ma in questo caso non è una libertà per il cliente bensì per l’azienda. E se in certi casi da il potere all’azienda di manipolare le menti dei clienti ed impedire libere elezioni democratiche, forse è il caso di considerare bene necessari limiti delle libertà aziendali.

Del resto può starci il pensiero di dare la libertà agli individui di arrecarsi dei danni, ma la scelta individuale di aderire a Facebook è un danno contro la propria rete sociale dato che crea pressione contro gli amici e mette in pericolo la democrazia in generale. Perciò in questo caso l’individuo si prende una libertà che non gli appartiene.

No. Finché esiste la possibilità tecnica di distribuire codice eseguibile senza il codice sorgente, il copyright ha solo un ruolo secondario.

Ci serve una implementazione diversa dei brevetti sul software. Una che tuteli solo le cose legittime da tutelare, ma che permetta l’esistenza di un mercato software anche se il codice proprietario divenisse illegale.

Esatto. Questi concetti vanno riformati, adattati, ma devono essere applicati anche al software dato che il codice eseguibile opaco eseguito su macchine con accesso alla Rete è un abbinamento troppo potente. Perciò l’errore nostro fu che al tempo ci siamo scagliati contro i brevetti software e abbiamo favorito il codice proprietario.

si dovrebbe lasciare ai proprietari del software la libertá di scegliere sotto quale licenza rilasciarlo

Questo lo facciamo comunque. In futuro diverrebbe frequente rilasciare codice sorgente con la limitazione che può essere usato solo nella sua esatta forma per riprodurre gli eseguibili in uso.

Ormai i smartphone hanno più potenza d’elaborazione dei PC di una volta.

In questo caso i codici che fanno abuso dei nostri dati (data mining, sorveglianza, AI, manipolazione elettorale ecc.) non verranno rilasciati… magari viene addirittura negata la loro esistenza. Ci viene detto che il cloud esegue solo open source e noi non possiamo controllare.

Da dove viene l’innovazione? In quale modo la societá progredisce? Da dove arriva il denaro per finanziare ad esempio l’automotive?

Per avere un’economia del software senza rendere gli utenti schiavi dei programmatori bisogna ripristinare il concetto di brevetti software, cioè che i source code ci sono ed è il fatto che fai le cose in un modo che qualcuno prima di te si è inventato apre il discorso su come rimunerare l’inventore originale… e lì bisogna imparare a giudicare bene cosa è brevettabile e cosa è triviale.

Può suonare difficile, ma l’attuale situazione è molto peggio: dato che ogni software può prima o poi essere riscritto da zero da qualcun altro, i veri vincitori delle guerre del software sono coloro che riescono a creare un monopolio artificiale. Quelli che riescono a stabilire il concetto che per fare shopping si va da Amazon, per cercare robe si va da Google, per socializzare si va dove stanno già tutti gli amici, per prendere un tassì si va da Uber, ed invece dell’hotel si trova abitazione da AirBnB.

Gli esempi che fai non sono software da eseguire sugli apparecchi degli utenti. Non sono nemmeno software da eseguire nella cloud. Eppure sono software dalla quale dipendono vite umane. È un aspetto interessante che finora non ho preso in considerazione.

Scusa, ma qui ti sbagli. Il fatto tecnico che il sorgente viene trasformato in eseguibile ha fatto si che fino agli anni 90 il software proprietario era omnipresente… i sistemi operativi, i videogiochi, i software aziendali… tutto. Semplicemente perché non esisteva nemmeno un compilatore libero affinché rilasciare il codice sorgente fosse di alcuna utilità alla società. I brevetti parevano essere importanti ma in realtà l’aspetto tecnico permetteva già un controllo da parte degli autori molto più efficace.

Mi riferivo ad altro. Quello che voglio dire é che storicamente parlando molto del denaro utilizzato per produrre software oepn-source arriva da aziende produttrici di software proprietario. E che queste aziende usano l’una o l’altra categoria a seconda delle loro valutazioni. Quindi ho il dubbio che in un’economia dove non é piú possibile usare software proprietario la sostenibilitá di software open-source potrebbe non essere possibile. O il software potrebbe diventare l’ancella di qualche altro mercato che lo finanzia, come ad esempio, il mercato dell’elettronica.

L’azienda puó essere anche un singolo autore o una piccola azienda di cinque persone. In ogni caso credo che obbligare un’azienda a rilasciare il codice rimanga scorretto, penso che questo problema possa essere affrontato da altri lati.

La logica conclusione di questo ragionamento e che si dovrebbe vietare agli utenti di usare i social.