Quando ho conosciuto la piccola combriccola pirata, grazie ai buoni auspici di Marco Ciurcina, e non più di tre mesi fa si è deciso di costruire attorno alla candidatura di Luigi Di Liberto la campagna elettorale per le europee, i pirati attivi non erano più di 6.
Il 26 maggio non abbiamo ricevuto più di 60.000 voti, ma il supporto di 60.764 persone, non click casuali su una piattaforma online, ma richieste d’impegno di uomini e donne che in gran parte si sono smosse da granitiche posizioni di non voto o che hanno sfidato la retorica del voto utile, o che hanno scelto la storia e la caparbietà dei 23 candidati del Partito Pirata. 60.764 persone a cui va un ringraziamento speciale.
Partecipando a queste elezioni abbiamo raccolto un po’ di più del consenso che io avrei considerato positivo, cioè quanto il Partito Pirata tedesco aveva raccolto alla sua prima apparizione sulla scena politica. Un risultato che ritenevo di buon auspicio per il futuro.
Sul futuro va valutata questa sfida, e sulla capacità di questo partito di corrispondere alle aspettative di un movimento sui diritti digitali che, con quest’ampiezza, mai si era espresso in Italia.
Chi legge questo risultato mettendolo in relazione con quello di altre liste fa due errori.
Vincere piace a tutti. Gli italiani si contraddistinguono dalla loro capacità di fare di ogni cosa un campionato di calcio, e ogni campionato di calcio un gioco tra gladiatori in cui ci si attende sangue e ossa spezzate. Purtroppo a questa tara non si salvano neppure persone per altri versi equilibrate, che non ce la fanno proprio a sottrarsi alla retorica della vittoria.
Il Partito Pirata ha partecipato senza alcuna struttura, senza finanziamenti e senza reti territoriali o supporto di organizzazioni o gruppi collaterali.
Ha volontariamente rifuggito personalità ingombranti o legami con gruppi o reti che avrebbero potuto chiedere conto di un loro supporto, e ha accolto invece tutti quelli, persone o realtà, sinceramente interessate a costruire assieme, nella tolleranza e nella condivisione, un modello di rappresentanza nuovo.
I candidati del Partito Pirata hanno scelto volontariamente di non usare una dialettica distruttiva rispetto agli avversari. I candidati, completamente indipendenti, hanno corrisposto con serietà e impegno all’impresa che il Partito ha proposto. Nessuno è sceso in guerra.
Il Partito Pirata volontariamente si è tenuto fuori dal gioco dell’informazione, sguaiata e furibonda che nel conflitto distilla odio e che per questo regala spazio alla violenza, alla sopraffazione e al sopruso.
Quelle 60.764 persone, non voti, hanno potuto conoscere e quindi scegliere i pirati, a cui nulla l’informazione ha regalato, non un servizio, non un commento, non un minimo di analisi, se non quanto obbligato da una par condicio che di pari non ha veramente nulla.
Ad esempio, Casapound ha vissuto praticamente nei telegiornali un giorno dopo l’altro e per pagine e pagine sulla stampa cartacea, e dopo tanto esposizione ha raccolto tre voti ogni due dei Pirati. Questo la dice lunga sul disvalore in cui oggi si dibatte l’informazione, ma soprattutto sulla forza di una proposta come quella dei Pirati, che convince per quanto ha di positivo e non semplicemente come argine ad un immaginario nemico. Se i Pirati avessero avuto quello spazio per raccontare le proprie storie e proposte quanto sarebbe potuto essere diverso il risultato?
C’è un secondo errore nel fare il confronto tra liste, in questa situazione di non parità. Tutti i simboli del voto «inutile» (da +Europa in giù), che pure hanno raccolto insieme più del 10% dei voti, hanno speso un credito politico pregresso, costruito a suon di ideologie, di brand storici, di grandi finanziamenti atlantici, o di unioni, talvolta con formule bizantine, o come detto della “buona stampa” che chiama all’identità di marchio. Tutti hanno speso.
Tutti tranne i Pirati che dal basso del loro niente, con un brand chiaramente disfunzionale perché urticante, hanno guadagnato per la prima volta in Italia un embrione di un movimento dei diritti digitali che in questa dimensione semplicemente non è mai esistito.
Un movimento molto ben rappresentato nelle elite, se si tratta di disquisirne sui blog di genere o spendere un po’ di soldi per far pubblicità a qualche marchio di telecomunicazioni, ma che a livello popolare e con questi numeri non è mai stato presente. E adesso sì.
A questo movimento il Partito Pirata deve corrispondere per le promesse che ha fatto, perché «perdere» le elezioni non è una buona scusa per non mantenere gli impegni presi.
E perché su quegli impegni, tra i 6 che hanno iniziato e i 60.000 che chiedono di agire, ci sono anche i 600 che si sono iscritti al Partito in queste settimane e che attendono di dare un contributo per trasformare quelle idee in azioni, e quelle azioni, possibilmente in realtà.
Ma se i partiti aspettano di entrare nella stanza dei bottoni per mantenere le proprie promesse, un partito diverso e nuovo può essere diverso e nuovo anche nel rispettare le promesse senza entrare nella stanza dei bottoni, e in questo si vedrà la differenza tra chi dice di essere pirata e chi lo è effettivamente.
Sono impegni precisi come la raccolta di firme per la proposta di iniziativa popolare per una legge europea sulla legalizzazione della condivisione delle opere coperte da copyright senza fine di lucro, o il fondo per la difesa contro le aggressioni politiche per i white hat promossa da Evariste Gal0is, o la proposta di legge di monetizzazione dei diritti negati ai disabili di Sara Bonanno, il sindacato degli YouTuber.
Di tutto questo parleremo a Torino nella seconda assemblea sullo Scambio Etico di TNT Village con tutti i capilista e i candidati del Partito Pirata il giorno 9 giugno. Essere fisicamente presenti sarà un modo per dare finalmente un corpo a questo movimento e un’anima a questo Partito Pirata.
Per annunciare la partecipazione è possibile farlo qui: